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Pubblicato il 15/01/2013 10:10

I santi che fanno la storia. San Biagio di Sebaste in Abruzzo

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di Antonio Alfredo Varrasso

L'annuale ricorrenza, il 3 febbraio, della festa di San Biagio segna ,in tanti centri della nostra regione, momenti essenziali di riscoperta delle proprie radici identitarie. Dal significato taumaturgico a quello socio-identiraio, il culto del santo armeno in Abruzzo, rivissuto profonadmente in età controriformistica, é ancora oggi molto sentito. Ma soprattutto aiuta a comprendere la secolare tensione delle comunità civili minori a voler affermare una loro essenziale specificità in un territorio egemonizzato dai centri cittadini maggiori, esprimendosi con un più consapevole linguaggio religioso e attraverso le prime forme associative nelle aree rurali abruzzesi.

Il testo di Antonio Alfredo Varrasso

A voler scorrere il dettagliato elenco degli insediamenti ecclesiastici abruzzesi e molisani, raccolto nel noto repertorio delle decime ecclesiastiche di fine Duecento e primissimi decenni del secolo successivo ( Rationes decimarum Italiae), pubblicato da Pietro Sella, ci si accorge subito della capillarità del culto riservato a san Biagio, presente appunto nei titoli ecclesiastici in tutte le diocesi delle due regioni.

 Naturalmente tutto quello che notiamo tra Due e Trecento ha un suo ancor più complesso retroterra, le cui radici devono ancora essere ben individuate, per quanto già oggi godiamo di riferimenti documentari dei secoli IX e X.

 Maratea può essere considerata una delle capitali più illustri dell'Occidente latino di quella che definirei un'adozione cultuale sorprendente - che la tradizione fa risalire al secolo VBIII -  e ricca di significati storici religiosi, quindi culturali e sociali, da evidenziare necessariamente in uno scenario nazionale ed europeo. Il culto di san Biagio, infatti, è particolarmente diffuso, a tutte le latitudini, proprio in area mediterranea.

 Dicevo della catalogazione tardo medievale in cui si evidenziano una quarantina circa di insediamenti dedicati al martire di Sebaste, sparsi in tutte le diocesi, tra cui due realtà benedettine - le uniche di tal genere - in terra molisana. E che i Benedettini siano stati grandissimi diffusori del culto di san Biagio è notissimo a partire dalle iniziative del loro Fondatore. Questi fatti sono noti. Tra IV e V secolo, in area sublacense e per diretto intervento dei religiosi orientali, che vi si erano trasferiti soprattutto a seguito dell'iconoclasmo, si costituirono almeno due insediamenti di culto dedicati a Biagio, secondo una tradizione prontamente recuperata da san Benedetto e destinata ad essere altresì recepita ed ampliata, se non coerentemente innovata dal suo Ordine.

 Perciò, ancora tra Due e Trecento le nostre fonti storiche sulla presenza di Biagio si fanno più ricche a registrare non solo i titoli dedicatori, ma anche le manifestazioni più diverse del culto, che penetra a tutti i livelli dell'inquadramento religioso delle popolazioni. Per restare in Abruzzo, in questo senso, è significativo tornare a citare il caso di Penne, sede di diocesi, della quale san Biagio diventa progressivamente compatrono accanto al più antico patrono principale, che è Massimo levita. E' un processo affermativo che culmina a fine Cinquecento, ma che ha i suoi presupposti nel Trecento con la presenza di una confraternita dedicata a san Biagio ed installata nella chiesa dei Domenicani. Ciò formerà oggetto, tra l'altro, di una vivissima dinamica insediativa, proprio tra Due-Trecento, degli Ordini mendicanti maggiori, a cui non fu estranea una più larvata, ma insistente e pervasiva iniziativa vescovile. Del resto, a cogliere il radicamento del culto biagino nell'area di Penne basterà ricordare che già attorno agli anni 1163-1166 è attestata una chiesa privata dedicata a Biagio, ricadente nella giurisdizione del monastero benedettino di San Bartolomeo di Carpineto, senza poi trascurare, in area frentana, l'importante ed emblematico caso lancianese, vvisualizzato nei suoi rapporti con la sponda orientale adriatica, con una chiesa datata al 1059.

 All'altro grande monastero benedettino abruzzese di San Clemente a Casauria, sorto nella seconda metà del IX secolo - il primo potente insediamento monastico autoctono della regione - per iniziativa imperiale carolingia, in quella che era area giurisdizionale pennese; a questo cenobio si deve una più antica adozione cultuale di san Biagio, che possiamo datare all'anno 869, attraverso un meccanismo tipico delle fasi fondative monastiche e cioè quella della 'dotazione' dell'ente religioso, disposta dal fondatore, in questo caso l'imperatore Ludovico II (+ 875). Questi, infatti, secondo un documento di compravendita, redatto a Salerno, acquistò da tale Pietro del fu Carlo, abitante in Roma, per il prezzo di 800 libbre d'argento, la casa di abitazione di esso Pietro, con area circostante, verosimilmente una 'curtis', in cui si trovava costruita una cappella " in honore sancti Blassi (...), cum balneo et viridario". Il documento in questione, peraltro, si è prestato ad una più particolare descrizione dell'assetto urbano dell'Urbe del secolo IX.

 Il Cronista del monastero Casauriense, Giovanni di Berardo, annotò un suo breve commento a latere del documento, nella Cronaca monastica, precisando che l'imperatore dispose questa compravendita 'trovandosi a Roma', ma, soprattutto, lo scrittore del XII secolo recupera il documento per descrivere, sempre nella Cronaca monastica, la complessa dedicazione della neo costruita chiesa abbaziale. Si tenga presente che il Cronista scrive nella seconda metà del secolo XII, riferendosi a circostanze del IX, come si vede. E, inoltrandosi a descrivere le dedicazioni di tre altari presenti nella cripta della chiesa abbaziale, riferisce che " dextrum vero in honore sancti Blassi martyris et episcopi consecratum". Questa notazione, che, tra l'altro, intenderebbe contribuire a descrivere un determinato assetto architettonico della originaria struttura clementina di Casauria, proprio nel caso - discutibilissimo -  della cripta e che denuncia, altresì, un più complesso rapporto nell'economia del codice in cui è inserita tra testi documentari più antichi e quelli narrativi, è però indicativa circa il processo di elaborazione agiografica in ambiente monastico. Infatti, mentre nel documento dell'869 abbiamo la nozione di una cappella romana dedicata a san Biagio, nel racconto monastico, come si vede, veniamo a conoscere una più chiara ed esplicita individuazione del santo, che è 'martire' e 'vescovo'.

 E' noto che per la compilazione cronistica il codicografo di Casauria utilizzò, oltre ai documenti della pratica, anche altre narrazioni scritte  di epoche ad egli anteriori. Ma queste sembrano concentrarsi sui secoli X e XI, particolarmente per gli eventi dell'incastellamento territoriale. Per il secolo IX il Cronista dispone essenzialmente degli atti del Fondatore e della relativa 'leggenda'.

 La dedicazione della chiesa abbaziale da quello fatta edificare, non senza intelligenza del vescovo di Penne del tempo (dal quale acquista il terreno stesso ove sorse il monastero), rimane un fatto centrale del racconto cronachistico. Dunque, quella riferita a metà circa del secolo IX ci appare come la più antica menzione di Biagio nella cultura monastica abruzzese.

Il vescovo di Penne, Grimbaldo (che oltre ai terreni cedette all'imperatore anche la preesistente chiesa di san Quirico) e che era perfettamente inteso delle iniziative imperiali, dovette necessariamente recepire, se non direttamente conoscere, anche le fasi dedicatorie del complesso monastico ed ecclesiale casauriense.

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Starei adesso per dire che la tradizione di questi rapporti monastico-vescovili, in qualche modo, venga ad ispirare la più particolare vicenda pennese, che ho evocato all'inizio, illustrata dalla presenza nella città vestina dell'insigne e controversa reliquia del cranio di san Biagio; un fatto, questo, che noi veniamo a documentare nel tardo secolo XIV.

 Nella decima del 1324 conosciamo solo due chiese dedicate a Biagio nella diocesi di Penne e aggiungo che in area monastica casauriense, tra IX e XII secolo, non ne conosciamo alcuna. Resta solo quella, di metà del secolo XII, del monastero di Carpineto, peraltro poi fatta distruggere. Nella complessa rete insediativa ecclesiastica dei possedimenti casauriensi, strutturata in chiese proprie e private, più che plebanali, non si riscontra nei titoli la dedicazione a Biagio, segno evidente che l'introduzione del culto in ambito monastico fu, possiamo dire, un fatto elitario.

 Ma è a Penne che, nella seconda metà del Cinquecento, quando il culto verso Biagio è generalizzato oramai nelle terre abruzzesi, che si imprime decisamente e ad opera dei Domenicani, una svolta verso il recupero - possiamo proprio definirlo tale - e una straordinaria valorizzazione della figura santificata di Biagio. I livelli culturali, ideologici di questa iniziativa, che si lega all'opera del priore del convento dei Predicatori di Penne, Serafino Razzi, arrivatovi dalla Toscana, sono quelli istituzionali ecclesiastici e della pietà popolare. E li conosciamo attraverso una 'relazione', che il Razzi redasse nel 1576, concernente la ricognizione della controversa reliquia del cranio di san Biagio; una narrazione che il Razzi riprende successivamente nella compilazione della sua " Storia di Raugia" (Ragusa-Dubrovnik), edita a Lucca, nel 1595 e che dedica a Maurizio Bucchia, arcidiacono ragusino. Le due 'redazioni' del Razzi, la pennese e la ragusina, si legano intimamente, per quanto diversi siano i contesti, in ragione del fatto che egli intende dimostrare che la reliquia pennese, il cranio di san Biagio, provenga alla città di Penne proprio da Ragusa, dove con ogni certezza il culto del martire di Sebaste, che ne è il 'patronus civitatis', vi si affermò, originariamente, in funzione antiveneziana ( e si pensi che san Biagio è, con i santi Leonardo, Nicola e Clemente, uno dei quattro patroni dello Stato Veneziano).

 La reliquia ragusina, pertanto, sarebbe giunta nella città dalmata nel lontano 1004, portatavi da un greco di levante, ma il patrocinio del santo sulla città si sarebbe manifestato già nell'anno 871, allorché i Veneziani tentarono di impadronirsene. All'origine, quindi, è un personaggio anonimo, un santo vegliardo, che si rivela ai Ragusini per Biagio ed è naturale, perciò, in un tale contesto, il ricorso alla reliquia, un ricorso sia pure tardivo, che è inteso ad attestare concretamente l'intervento del santo, a munizione di quella che sarà chiamata la 'Repubblica di San Biagio'.

 Siamo qui in presenza chiaramente di uno schietto, per quanto controverso, culto cittadino di marca fortemente identitaria. Non v'è all'origine alcuna accentuazione di tipo taumaturgico. Biagio è qui, essenzialmente, il "defensor civitatis". Il Razzi non spiega la pretesa traslazione della reliquia a Penne, ma certamente fissa un intermediario interpretativo della vicenda nella persona del domenicano Giovan Domenico Fiorentino, già arcivescovo di Ragusa e poi cardinale, il quale, nel 1411, rilasciò ai Pennesi talune indulgenze a favore di coloro che avessero onorato la reliquia di Biagio nella chiesa dei Domenicani di Penne. A parte i miracoli operati mercé la reliquia a Penne, tra cui, anche qui, alcuni di marca schiettamente cittadina, come la risoluzione di terribili faide cittadine, per il Razzi sembra oltremodo confortante l'autorità del prelato, suo confratello, ad attestare la provenienza ragusina del cranio di san Biagio. Ma, come dicevo, non ne chiarisce i moventi, né l'epoca della 'pretesa' traslazione, per quanto si dilunghi a raccontarne le circostanze, che, direi, significativamente illustrano un rapporto di collaborazione tra Domenicani e Francescani pennesi.  Il quale muta nel prosieguo,  in una vera contrapposizione, allorché la venerazione della reliquia biagina in San Domenico di Penne risulterà più che munifica ai Predicatori ed a scapito dei Minori Francescani. Questi, di par loro, cercano adesso, ma con scarsi risultati, il rilancio del culto locale del santo vescovo, Anastasio de Venantiis, ovvero di colui che, da presule pennese, avrebbe accolto in città il Serafico Padre, Francesco d'Assisi, destinandogli il luogo del convento francescano. Insomma, una vera e propria gara di 'reinvenzione del passato', fortemente ancorata all'attualità.

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Nella relazione pennese del 1576 il Razzi auspica e per certi versi pianifica l'ulteriore sviluppo del culto di san Biagio. "Dovrebbesi pertanto" - egli scrive - "predicare alle Terre qui vicine, o almanco qui nella Città, sopra le sopradette cose, et rinfrescare, et fare rinverdire ne i cuori de i fedeli la divozione a questo Santo, che già fioriva et in gran parte hora è mancata, Dio voglia che nò per la negligenza nostra"-

Ma sono questi anche gli anni d'indefesso impegno dei Padri Predicatori per il recupero ed il rilancio della devozione alla Madonna del Rosario (soprattutto dopo gli eventi di Lepanto, del 1571), possiamo dire quasi in tutta l'Europa cattolica e sono questi  i decenni in cui si dispiega l'opera riformatrice della Controriforma, sulla base delle innovazioni del concilio di Trento, nel contesto di un territorio che letteralmente si riscopre dalla pastorale parrocchiale. Ancora una volta Francescani e Domenicani, che sperimentano, da tempo, di par loro e al loro interno, importanti momenti di riforma, sono all'avanguardia in quella che sentono come una vera e propria fase missionaria di evangelizzazione, per quanto, essa stessa, non priva di  marcate esitazioni ed incertezze.

 Nell'esempio pennese san Biagio contribuisce a svolgere validamente il programma di un riassestamento e, al tempo stesso, di rinnovamento del culto e, quindi, viene proposto - se mi si passa il termine - ad una rinnovata attenzione della devozione, giungendo a farlo divenire 'patronus civitatis' in due centri significativi dell'area già gravitante al monastero di San Clemente a Casauria, come Castiglione a Casauria e Alanno.

 Ai confini dei quali, in diocesi di Valva, precisamente a Bussi sul Tirino, dove il radicamento del culto biagino è ancora documentabile ad inizio Trecento, egli già gode della titolarità parrocchiale e del patronato cittadino. Gli esempi dell'area casauriense, specialmente quello castiglionese, appaiono veramente didascalici, nel senso che l'adozione cultuale ribadisce un criterio esemplativo che i centri minori derivano dalle realtà urbane e cittadine più affermate.

Il culto del santo patrono, pertanto, in piena età moderna, afferma potentemente l'identità 'cittadina' di tantissimi centri minori, così ridati ad una più intensa ed incisiva iniziativa pastorale.

 Qui, in Castiglione, non si tratta solamente di rinnovare ed esaltare, con l'incremento della pietà religiosa, la compagine dei fedeli; di promuovere, come in tanti altri luoghi, una più incisiva riforma della vita del clero secolare, ma anche, in programmatica applicazione dei canoni tridentini, non poco controversi proprio nel clero secolare, di rideterminare gli assetti giurisdizionali interdiocesani. Qui è in ballo anche la figura e l'autorità apostolica del vescovo ( e non a caso si sceglie la figura di un antico martire vescovo!), profondamente limitata negli assetti giurisdizionale anacronistici delle circoscrizioni nullius degli enti ex benedettini. Per i canoni di Trento le chese cosiddettr 'esenti', cioè non dipendenti direttamente dagli ordinari diocesani, ma annesse alle giurisdizioni ex monastiche e quindi 'amministrate' da prelati commendatari e dai loro 'rapacissimi' vicari, spessissimo assenteisti, dovevano essere visitate proprio dagli ordinari diocesani, in quanto vescovi più vicini e, nello specifico, con l'autorità pontificia di 'amministratori apostolici', come è appunto il caso pennese.

  San Biagio, a ben vedere, in tale contesto svolge un ruolo innovativo.

 Ma chiedergli questo era, al momento, alquanto eccessivo! Nel nostro Mezzogiorno dovremo attendere il pontificato di Pio VII, quando, nel 1818, con la famosa bolla 'De utiliori' si ridisegnerà efficacemente tutta la circoscrizione diocesana del regno borbonico. Tuttavia san Biagio, di fatto soppiantando localmente altre figure di santi già venerati come patroni cittadini, per esempio Fabiano e Sebastiano a Castiglione a Casauria, con la sua spiccata taumaturgia ed inesauribile forza attrattiva, ricompattava - se posso dire - il popolo della Chiesa e il popolo della Terra dando così sostanza ad una vera ed incisiva prassi controriformistica. Al tempo stesso denunciava un profondo affievolimento della concezione stessa del patronato locale dei santi.

  Per averne un elemento di vivida conoscenza, ricorro ad un episodio degli anni quaranta del Seicento. Allorché l'abate commendatario di Casaurioa, il prelato laico, Pietro Colonna, conferiva a quanche chierico locale di Castiglione il beneficio di una cappellania, eretta nella chiesa parrocchiale del luogo, spesso confondeva il titolo mariano (Assunzione di Maria) di questa - elemento precipuo della sua giurisdizione nullius - con quello di san Biagio. Cosa oltremodo deprecabile, proprio sul piano pastorale, ma, al tempo stesso, illuminante la straordinaria modernità, in pieno Seicento, di un santo del secolo IV.                                                     

 

Antonio Alfredo Varrasso

 

(*) Testo del mio intervento, tenuto a Maratea, nel maggio 2008, in occasione della festa cittadina del patrono, San Biagio, nella tavola rotonda organizzata, presso la Chiesa Matrice dell'Annunziata, per la presentazione al pubblico della mostra 'San Biagio in Abruzzo. Storia, arte e tradizioni', organizzata dalla Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per l'Abruzzo di L'Aquila. Chi scrive ha altresì curato la mostra, tenutasi nel febbraio 2006, in Castiglione a Casauria, 'Dall'Argeo in Occidente.San Biagio nella storia'.

 

 

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