Si e' aperto davanti alla Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila presieduta dal giudice Luigi Antonio Catelli, il processo di secondo grado a carico di Vincenzo Gagliardi, l'impiegato delle Poste di Pescara, condannato, con il rito abbreviato, a 30 anni di reclusione per l'omicidio dell'ingegnere informatico Carlo Pavone, colpito con un colpo di fucile, sotto la propria abitazione a Montesilvano, il 30 ottobre del 2013 e morto il 16 novembre del 2014 dopo un anno di coma. Dopo la requisitoria e le arringhe, che si sono protratte fino alla meta' del pomeriggio, il giudice ha aggiornato l'udienza al prossimo 20 maggio per le repliche e la sentenza. Il pg Romolo Como e' stato il primo a prendere la parola, chiedendo la conferma della condanna per l'imputato, oggi presente in aula e da diversi mesi agli arresti domiciliari, "in quanto le prove attestano le responsabilita' di Gagliardi". Le parti civili, ovvero i due fratelli di Pavone, Adele e Rocco, e la madre Concettina Toro, assistiti dagli avvocati Massimo Galasso e Marino Di Felice, e i due figli della vittima, tramite il legale Ettore Paolo Di Zio, si sono associati alle richieste dell'accusa. Il tribunale di Pescara, in primo grado, aveva condannato l'imputato perche' "tutti gli elementi indiziari risultano gravi, precisi e concordanti e concorrono unitariamente a formare un quadro probatorio grave a carico di Vincenzo Gagliardi consentendo di ritenerlo, al di la' di ogni ragionevole dubbio, autore dell'omicidio di Carlo Pavone". La difesa, rappresentata dall'avvocato Renzo Colantonio, ha riproposto la linea difensiva adottata in primo grado, sostenendo che il rinvenimento di un coltello sulla scena del crimine sarebbe la prova dell'innocenza del suo assistito, dal momento che sull'impugnatura dell'arma sono state trovate tracce biologiche che non appartengono ne' a Gagliardi ne' a Pavone, ma ad una terza persona tutt'ora ignota, che a giudizio del legale avrebbe a che fare con l'omicidio. Colantonio, inoltre, ha cercato di smontare uno dei principali indizi che hanno portato alla condanna, ovvero il rinvenimento di polvere da sparo sugli indumenti sequestrati a Gagliardi: l'avvocato difensore ha adombrato dubbi sull'attendibilita' degli esami sul piano temporale e ha sostenuto che non e' possibile stabilire con certezza l'univocita' della provenienza dei residui da un'unica arma da fuoco.
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