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Pubblicato il 18/01/2014 14:02

Daniele Kihlgren, l'uomo che ferma il tempo

di Giulia Grilli


Nella bottega di Sextantio, in compagnia di troppi caffè e tisane dall'odore inebriante di liquirizia e finocchio, Daniele Kihlgren racconta del primo incontro con un borgo abbandonato. Il fiato che si spezza davanti alla miseria di un luogo sperduto sul Gran Sasso, dopo essersi perso in moto girando tra le curve di montagna. E' la fine degli anni '90. Le mura che raccontano di tempi passati, l'assenza della civiltà del XX secolo, un paesaggio e un territorio integri sono la scintilla di una storia d'amore senza fine con Santo Stefano di Sessanio. Siamo a 1250 metri di altitudine, in uno dei luoghi più affascinanti dell'Abruzzo.

Laureato in filosofia, Daniele Kihlgren ha voluto diventare imprenditore sfruttando la bellezza di un "mondo che ha perso", per rinnegare, forse, le origini familiari materne legate all'imprenditoria del cemento. "Non sono svedese come scrivono sui giornali. Mio nonno lo era, ecco perché ho questo cognome, ma io sono nato a Milano!" afferma sorridendo. Alto, con qualche sfumatura di biondo tra i capelli. Questo quarantaseienne con gli occhi azzurri parla freneticamente spaziando dalla storia alla letteratura, per concludere con i racconti di Clementina e Melone, i suoi due bulldog inglesi. Si definisce un folle, un visionario, ma forse è solo un uomo troppo amante della vita. A lui va il riconoscimento di aver ridato la luce alla ricchezza nascosta della nostra regione. Ma non chiamatelo "l'uomo dei borghi".

 

 

Che cosa ti ha colpito la prima volta che sei venuto a Santo Stefano di Sessanio?

L'integrità, il fatto che sembrava di entrare in un altro secolo, altro periodo storico, altro mondo, altro universo. Non vedere le tracce di case del post boom economico. Per me era tutto degno di attenzione. La tutela del patrimonio storico minore ha un valore culturale, deontologico e ripercussioni economiche da valutare. Ho sempre pensato che se la gente avesse custodito la dimensione agro pastorale avrebbe potuto sviluppare un'economia diversa in termini di turismo. A volte è solo mancanza di vision, perché le persone si perdono nel particolare senza capire che il bene comune può essere anche bene proprio.

 

Perché, secondo te, il tuo investimento ha ridato vita a questo borgo dimenticato nel tempo?

Quando sono arrivato la prima volta a Santo Stefano c'era una sola struttura ricettiva con qualche camera e un bagno in comune. Negli ultimi anni, invece, si sono sviluppate economie inimmaginabili e il valore degli immobili è aumentato di tre volte secondo le agenzie del territorio. La scintilla è stata il progetto, il fatto di puntare sulla conservazione. L'Italia sta massacrando il proprio paesaggio e patrimonio, soprattutto quando si allontana dal fascino e dalla dignità del patrimonio storico classico. Questi luoghi rappresentano la povertà se rapportati ai centri di fonte culturale, per questo non sono mai stati tutelati con rigore.

 

 

 

Qual' è stato l'elemento su cui hai investito maggiormente?

L'inedificabilità, senza dubbio. Grazie a un'alchimia di strumenti urbanistici comunali e regionali siamo riusciti a garantire l'integrità del luogo per preservarlo senza alterazioni, in modo da assicurare il valore aggiunto che è dato dal costruito storico e dal territorio circostante. L'idea è molto chiara, e parte da un giudizio di valore. I borghi incastellati, che caratterizzano il Centro Sud dell'Italia, sono un patrimonio che dev'essere passato alle generazioni future. Qui l'architettura è diversa da quella rinascimentale, perché non si impone sul territorio, ma lo subisce creando una dimensione ristretta con il paesaggio, un rapporto ancestrale.

 

L'abbandono, la povertà, il degrado. Perché hai tanta attrazione per questi aspetti?

Io non vengo da una realtà povera, sono cresciuto nella Milano bene. Ma ho imparato che il mondo è fatto di prospettive, e sono sempre stato attratto dalla diversità. Forse, per questo motivo, luoghi come Santo Stefano di Sessanio, ai miei occhi, risultano intrisi di bellezza nonostante siano stati squalificati nel tempo. Questo è un mondo che ha perso, dove negli anni '50 il centro storico sapeva di mucca, di pecora, di liquami ed era considerato povero. Ho sempre viaggiato molto e sono affascinato da tutto ciò che è nascosto, perché l'esplorazione è bella. Io, poi, sono un irresponsabile, un eterno Peter Pan! Sono un grande amante della vita, per cui mi piace viverla in tutte le sue sfumature.


E quali sfumature hai trovato a Santo Stefano?

Non voglio citare Pascoli, ma questi sono luoghi il cui fascino è legato alla nicchia, alla cripta, all'angolo e non alla monumentalità classica. Venendo qui ci si rende conto che questo è un posto fatto di ombre e di oscurità. Abbiamo conservato i muri neri, come elementi pregni, intensi e comunicativi.


Cosa ti ha spinto a voler mantenere l'integrità di questo luogo tanto da recuperare materiali, coperte, stoffe?

Ho capito che intervenendo in una certa maniera si ritrova l'identità profonda di un luogo, che lasciato pieno di muffa risulterebbe squallido. Ma il limite tra ciò che è squallido e ciò che è povero è davvero sottile. Ho recuperato tutto il possibile seguendo l'idea del restauro, è stata fatta una ricerca approfondita con il Museo delle Genti D'Abruzzo, per ritrovare arredamenti, stoffe, telai, filati, granaglie. Ora dobbiamo riportare alla luce le tradizioni culinarie, perché in Italia parte tutto dal cibo, che secondo me, va inserito all'interno di un territorio per avere una sua caratteristica specifica.

 

Prossimi progetti? Prossimi borghi?

Non ho più un Euro! Quindi basta borghi, ne ho comprati una decina... Sto cercando soci, perché io ho finito i soldi e se dovessi averne li metterei nel mio progetto in Ruanda, www.associazionesextantio.org, per salvare chi muore di una semplice influenza.

 

 

 

 

 

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