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Pubblicato il 30/07/2013 18:06

Nunzio Sulprizio a Città Sant'Angelo

città sant'angelo, antonio alfredo varrasso, Beato Nunzio Sulprizio

di Antonio Alfredo Varrasso

Città Sant'Angelo, nella Collegiata di San Michele, ospita in questi giorni, sino al prossimo 27 luglio, il simulacro di Nunzio Sulprizio, in ricordo del 50° della sua beatificazione (1° dicembre 1963).

Dieci bellissimi disegni, realizzati per questa felice occasione, di Giuditta Trasatti, giovanissima artista, colta ed attenta, di Pescosansonesco, ne ripropongono, lungo il portico dell'antica chiesa angolana, alcune fasi salienti della vita. La pittrice, infatti, s'è confrontata con una più recente rilettura, necessaria, per quanto ancora provvisoria, dei testi documentari, con le fonti scritte, cioè, della santità di Nunzio, ancora intatte per essere rivisitate e più adeguatamente storicamente collocate.

Ero in Pescosansonesco, giorni fa, assistevo al momento della partenza dell'urna contenente le spoglie di questo ragazzo santo e avvertivo una profonda commozione nelle diverse persone che assistevano all'evento.
Qualcuno piangeva, senza strepito, intensamente e pregava. Compunti e sereni, tutti gli parlavano tutti con le parole del cuore, in silenzio.

Anche io feci fatica a trattenere l'emozione ed un'anziana signora mi disse: "Per noi è come se esca un morto di casa". Un figlio, insomma, che se ne va, sia pure momentaneamente!
Sentire Nunzio in questo modo viscerale, intimo, personale, spiega, per molti versi, una santità un po' fuori dalle regole.

Nunzio è un ragazzo, un poverissimo ragazzo e il popolo, o, per meglio dire la gente comune, non da adesso, lo sente suo, quasi a volerlo ripagare dell'assurda violenza della miseria che lo colpì e di quell' "innocente dolore", come disse Paolo VI, che fu il suo inseparabile compagno di vita, il colore dei giorni di tantissimi ragazzi come lui.
Il processo di identificazione con Lui è profondo e nel tempo ha accumulato tratti di devozione e di affetto che ora sono spazi vivissimi dello stesso paesaggio umano e sociale di Pescosansonesco.
Se si può riconoscere anche nella bestemmia un valore semantico dell'uso dei santi, occorre dire che mai e poi mai il nome di Nunzio Sulprizio viene bestemmiato!
E se mai una cosa simile dovesse accadere, allora un dolore, acerbissimo, prende il cuore e la mente, senza lasciarli per giorni e giorni, del vero e proprio malcapitato!

Si tenga anche conto del fatto che Nunzio è un laico e, dunque, difficilmente assorbibile nella e dalla maglia della dimensione ecclesiastica della santità. Sfugge, in qualche modo, al controllo e diventa, semplicemente, meravigliosamente, amico, fratello, compagno di tutti. E' un confessore della fede si, ma, con più avvertita urgenza, un testimone della società e della realtà contemporanea.

Lo si è accostato in campo agiografico a Luigi Gonzaga; gioventù e verginità sono valori distintivi di ambedue, ma Nunzio non è un aristocratico, un nobile,no!

Come disse un sacerdote napoletano, D. Antonio Radente, durante il primo processo informativo napoletano di beatificazione, Nunzio non patì tanto la povertà, ‘quanto la miseria'. Poveri e degni, miseri e indegni, eppure la grandezza di Nunzio stà anche qui: misero, nel vero senso della parola, ‘coverto di stracci', come lo vide il suo benefattore napoletano per la prima volta, nel 1832, a Napoli, Felice Wochinger, ma degno, degno come uomo, povero e malato!
Dunque, anche i miseri sono degni! Come non voltarci attorno, come non vergognarci per tanta insensibilità dell'uomo contemporaneo!

Questa nuova ‘traslazione' di Nunzio (anni fa fu a Pescara, presso l'omonima parrocchia cittadina) induce a ritenere importante, non solo per la Chiesa, la diffusione, l'incremento cultuali e la conoscenza storica della sua esperienza.
Egli nacque, ricordiamolo, in un'età storica di transizione, la seconda Restaurazione, nel 1817, nell'Abruzzo Ulteriore Primo (Teramo); un'età terribilmente segnata, in continuità con i decenni precedenti, però, da endemica precarietà sociale, che doveva ancora perdurare, per decenni, sino alla grande ondata migratoria degli anni Settanta dell'Ottocento.
Scrisse il Sindaco di Pescosansonesco, proprio il 30 marzo 1817, al Sotto Intendente del distretto di Penne, cui il Comune apparteneva, a proposito dello stato sanitario e di salute del suo paese: "....essendo mio dovere riferire a Vostra Signoria Illustrissima lo stato di sanità che si gode in questo Comune, vengo a parteciparle che non vi ricorrono affatto malattie di sorte alcuna ad eccezione dei patimenti delle miserie. Tanto le devo e con sincera stima la saluto, Giovanni Battista Corti"! (l'esclamativo è mio)

Dunque, la miseria assimilabile, se non altro, a malattia, senza con ciò pretendere da quell'avveduto ed autoironico Sindaco pescolano una sensibilità di tipo socialista, che già si avvertiva, però, in differenti latitudini europee. Ed era vero, si badi, già nelle parole del Sindaco, anche il contrario: dalla miseria la malattia.

Infatti, la malattia, quella clinica, che colpì Nunzio tra i sei ed i nove anni, era indubbiamente conseguenza diretta di quella miseria non confondibile, che il Sindaco vedeva e sapeva ed in qualche modo storicizzava.

Cominciò a soffrire di ‘spina ventosa', forma particolarmente virulenta di tubercolosi ossea, che colpiva i fanciulli malnutriti e che in molti casi si risolveva in forme invalidanti e non mortali, ma che in Nunzio venne a sommarsi ad una patologia più complessa, fino a condurlo alla morte, all'età di 19 anni.

Mi piace ricordare che Lui, orfano dei genitori e poi dal 1831, dell'amatissima nonna materna, si costruì da solo la sua gruccia; con le sue mani la fabbricò e che il lavoro ‘coatto' a cui venne costretto, nella bottega dello zio Domenico Luciani di Pescosansonesco, dovette, oltre che prostrarlo fisicamente, inadatto come era a quelle fatiche, anche rivelare un ingegno vivo, avido di saper leggere e scrivere, di pregare ‘bene' ed anche di cantare.
Nunzio si ‘trascinava' ed ebbe a scoprire, così, il valore incommensurabile della misericordia, fatta solo di un abbraccio, o dell'aiuto a reggersi in piedi, fosse solo per salire un gradino!

Forse che non ebbe modo, qualche volta, di sorridere e gioire tra tante miserie e privazioni? I documenti processuali di beatificazione usano, a questo riguardo, il verbo ‘trastullare', vale a dire perdere tempo in cose non utili, non importanti. Molti dicono: non si trastullava!
Ecco, il gioco di un ragazzo, tra altri ragazzi come lui, concepito come una grave distrazione, una perdita di tempo. Ma era cosi?

E' la storia della miseria di un paese abruzzese del primo Ottocento, Pescosansonesco, circa mille e più abitanti allora, ad insegnarci anche che si poteva giocare con i sassi, che si poteva gioire rincorrendo gli uccelli, salire sugli alberi e conoscerne i nidi, ridere felici nel gustare un frutto, magari ghermito di nascosto nel campo di un paesano, giocare con gli animali da cortile, o tra le piccole morre di capre e di pecore, amici eterni, in ogni stagione, di quel paesaggio ‘incantato', noioso ed incantevole alle falde del monte La Queglia! Orrido ed essenziale, fino agli alpeggi di Monte Picc e del Monte Crugnale, l'antica ‘Brungata'.
Era anche allora possibile a molti ragazzi fabbricare con le proprie mani un giocattolo, un pupazzino, un oggetto con cui divertirsi; pratica di cui i pastori, illetterati poeti, erano espertissimi!

Credo che di tutto questo e di più Nunzio Sulprizio parli, oggi, alle tante persone che lo vedono, lo toccano, lo venerano a Città Sant'Angelo; questa città illustre del nostro Abruzzo, che proprio a causa delle rivoluzioni del 1848 soppiantò Penne alla guida del secondo distretto provinciale; quella Penne che aveva spaventato la monarchia borbonica con la sua élite rivoluzionaria irriducibile, gli echi delle cui azioni raggiunsero anche il borgo pescolano ancora durante le fasi cruciali dell'Unità Italiana.

E che dire, poi. di Pescosansonesco, agli inizi dell'Ottocento, devastato da un sordido brigantaggio antifrancese (il nonno materno di Nunzio, Giuseppe Luciani, venne ucciso, con altre quattro persone, nel 1807), ma anche percorso, innervato di una vena di violenza inaudita tra le persone, isolate e ristrette in una sorta di alveare promiscuo dalle difficilissime condizioni abitative.

Quella che fu la famiglia di Nunzio, ancora nel 1815, due anni prima ch'egli nascesse, venne devastata da un orrendo omicidio, rimasto impunito: il patrigno della sua futura madre, Domenica Rosa Luciani, tale Berardino Savini, il secondo marito di Anna Rosaria Del Rossi, la nonna materna di Nunzio, orribilmente ucciso in campagna, vicino la sua morra di capre, a colpi di accetta.

Polisemico, possiamo dire, il messaggio di Nunzio, oggi soprattutto.
Nei primissimi anni Sessanta del secolo scorso poteva sollecitare, in un Italia terribilmente in crescita, un più accorto e meditato rapporto con il mondo del lavoro; lavoro operaio, lavoro contadino.
Ma anche in questo il profilo di Nunzio è sfuggente. Egli non incarnò mai, né poteva, la figura dell'operaio di officina, per quanto adattata al mondo domestico di una bottega di fabbro ferraio.
Non ha, Nunzio, un profilo classista di tipo classico, da rivoluzione industriale.
E' un lavorante di bottega sfruttato, assimilabile più ad un bracciante nullatenente, che ad un operaio.
Non è un caso che, proprio a fine secolo, nel 1891, in Francia l'intransigente cattolicesimo transalpino cerca di introdurre una sua immagine fuorviante.
Il conte Edoard Camus, pubblica ‘Un apprenti modèle, Nunzio Sulprizio (Desclée. Paris-Lille).
Insomma, un Sulprizio in aperta polemica con il dissacrante fermento del positivismo d'oltralpe.
Quest'opera venne poi ripetuta in tedesco, nel 1899: ‘Grin Vorbild fur Lehrlinge, oder: Lebensbefehreibung des gottfeligen Nunzio Sulprizio, 1817-1836... (Drud und Derlag der Miffionsdructerei, Stenl)'.

Egli, però,ci evoca, piuttosto, il tema del lavoro minorile, al di là di ogni tutela; quello di uno sfruttamento generalizzato dell'infanzia semi abbandonata, a cui non si presta nemmeno l'attenzione del cibo, nemmeno quella della cura della salute, ma si spedisce, in tutta fretta, quando non c'è più niente da fare, all'ospedale degli Incurabili di Napoli, ove entra nel giugno del 1832.

E, si sa, in quei tempi l'ospedale, più che luogo di cura, prefigurava l'ultima spiaggia della vita.

A Napoli, infatti, morì, il 5 maggio 1836, nella casa del colonnello Felice Wochinger, ove era stato accolto, amorevolmente, sperando di salvarlo.

La santità di Nunzio Sulprizio la si tocca con le mani negli occhi di quei Pescolani che, alcuni giorni fa, salutavano la sua ‘immagine' in partenza per Città Sant'Angelo. Egli vive, fecondo di bene e di meste aspettative, nell'anima del suo Popolo!

E certe tenerezze, certi abbandoni, che ho avuto esperienza di sapere, di molti che gli chiedono la grazia; una grazia, fosse solo anche della pace in famiglia; queste attenzioni interessate ed interessanti, descrivono un sorriso che non possiamo raffigurare visivamente, per quanto ci impegnassimo a farlo, come pure si è fatto, ma che resta veramente, che si fa, che diviene, in ogni cuore sofferente che si accosta a Lui ed in quello di chi lo conosce per la prima volta. Si, è giusto dire, proprio perché così, intatto modello sociale, che Egli è vero.

 

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