Guardo i miei figli e sono indubbiamente una meraviglia. Certamente quanto di più importante abbia fatto e potrò mai fare nella mia vita. Questo è certo. Lo sanno tutti. Essere madri è un gran privilegio. Ce lo dicono sempre gli uomini.
“Siete fortunate. Avete ricevuto il dono di dare la vita. Noi non potremo mai provare o capire cosa questo significhi.” Come non convenire con questa evidente verità. Guardo i miei figli e, in effetti, è proprio così. Non fosse altro che non riesco a liberarmi dalla sgradevole sensazione che, in Italia e in questo tempo, essere madri sia diventata una condizione totalizzante che improvvisamente ti consegna in uno spazio liminare, ti conduce lungo una soglia in cui smetti di essere donna, di essere persona e getti la tua vita in una bidimensionalità spiazzante e avvilente. Dovrei scrivere degli articoli, ma come fare se gli adorati pargoli urlanti invocano a squarciagola il tuo nome per dirimere le per loro urgentissime questioni riguardanti la proprietà di un giocattolo. Ma ci sei solo tu a svolgere questo delicato ruolo. Ci sei sempre tu. Solo tu. Così, nel mezzo di questo clamore/clangore assurto a condizione permanente, si fa spazio uno strano silenzio dal quale emergono ricordi dei piani che avevi per la tua vita, degli sforzi che hai fatto per realizzarli e delle porte chiuse in faccia o delle opportunità mancate perchè hai desiderato, hai voluto e, infine, hai scelto di essere anche madre.
Così mi ricordo di quando, anni fa, la mia esperienza di docente a contratto presso un ateneo romano si chiuse a causa degli ennesimi tagli ai fondi universitari. Ricordo l'amarezza che provai quando seppi che quando si trattò di decidere quale contratto non rinnovare, il mio oppure quello del mio omologo maschile, scelsero di rinunciare al mio adducendo il fatto che “tanto la prof. Cinquina è impegnata a fare la mamma.”
Amarezza ancora più pungente ripensando al fatto che, non prevedendo il mio contratto alcuna tutela per la maternità, non avevo mai smesso di lavorare per tutta la durata della gravidanza, né avevo mai mancato una lezione o una sessione d'esame per l'allattamento. La mia gravidanza e la mia maternità avevano riguardato solo ed esclusivamente me, cionondimeno il semplice fatto di essere diventata madre ha consentito, pur “nell'illuminato e progressista” mondo universitario, di brandire questa condizione contro di me avvantagiando, seppur per poco, il mio collega maschio. Non è uno scoop scoprire che in questo paese il numero delle donne occupate è di gran lunga inferiore alle medie degli altri paesi europei; non è una notizia che le donne che scelgono di diventare madri sono spesso costrette a rinunciare al loro lavoro o non vengono messe nelle condizioni di poter fare entrambe le cose. Ma questi dati ripetuti a destra e a manca pressochè da tutti, sociologi, politici, giornalisti, economisti, sindacalisti, imprenditori è poco più di un mantra cantilenato ininterrottamente, da sfoggiare nei salotti della comunicazione.
Quel che resta è una condizione da cui sembra sempre più difficile trovare una via d'uscita e se e quando la si trova non si tratta mai del frutto di un assetto sociale virtuoso e complessivo, quanto piuttosto di iniziativa e inventiva individuali. Il figlio non viene percepito come un bene sociale, qualcosa di prezioso per l'intera comunità, ma come una questione interamente personale. E non importa che le donne siano più preparate e istruite o portatrici di una diversità di genere, culturale e intellettuale, che può essere arricchente, il nostro posto resta unicamente quello di custode della progenie. Così il mio sguardo si posa nuovamente sui miei figli e mi chiedo cosa dovrò insegnare loro. I miei genitori mi hanno cresciuta inculcandomi l'idea che con l'impegno, la preparazione, il merito avrei potuto dar corpo alle mie aspirazioni. Io l'ho fatto. Ho una laurea, un dottorato, ho studiato e lavorato all'estero e, tuttavia, sembra che questo paese abbia tutta l'intenzione di non servirsi di me, come di migliaia di altre donne italiane. Cosa racconterò a mia figlia, come l'aiuterò a costruirsi il suo futuro, a mettere a punto gli strumenti che le consentiranno autenticamente di essere una cittadina, lavoratrice, donna e madre? La guardo giocare i giochi di bambina e questa domanda senza risposta fa ombra all'immensa gioia e all'enorme privilegio di vederla crescere.
Rossella Cinquina
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