Ricordando Luigi, ‘Gigetto’ Sandirocco
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Pubblicato il 14/07/2012 18:06

Ricordando Luigi, ‘Gigetto’ Sandirocco

sandirocco

di Antonio Alfredo Varrasso

 

Da qualche giorno me lo aspettavo. La settimana scorsa, durante l’ennesima telefonata, mi disse: ‘Io sono arrivato’. E così, in qualche modo preparato ed in piena coscienza di quanto gli avveniva, lo scorso 20 luglio, Luigi  Sandirocco, a 91 anni e con un animo leggero come quello di un ragazzo, se n’è andato, presso l’Ospedale Civile di Pescara.

All’ingresso dell’Istituto di Studi Comunisti ‘Palmiro Togliatti’ delle Frattocchie campeggiava una scritta ammonitiva e, al tempo stesso programmatica, forgiata da Carlo Salinari: ‘Cognosce quod immutabis’; liberamente tradotta, ‘conoscere per trasformare’. Fu per lui, con lui, con Sandirocco, segretario regionale del PCI in Abruzzo, che intrapresi, poco più che ventenne, una non lunga ma intensa frequentazione di quella scuola di partito. Mi esortò a frequentarla, io giovane dirigente di base del PCI, per diversi motivi, non ultimo quello di continuare a confrontarmi con lo studio, inteso gramscianamente: impegno, dedizione, sacrificio, cioè lavoro vero, proprio a seguito dei miei più recenti fallimenti scolastici. Lui sapeva bene che a me piaceva studiare! Avevo bisogno di fare ordine nella mia vita proprio nel mentre davo le migliori energie a quell’ideale rivoluzionario, di cambiamento, che mi ha sempre affascinato e preso.

Questo per dire che, tra le altre cose, ‘Gigetto’ era un dirigente colto e sensibile. La nostra amicizia, una intensa fraternità, evolse al punto tale che lui coniò per me un nome tutto suo e con il quale mi ha sempre identificato, anche idealmente: “Antonino”. Una sorta di rinascita spirituale! Ma tra noi ci fu anche una parentesi dell’’odio’, che di solito è l’altra faccia dell’amore. Per diversi anni ci separammo, ma poi, non potendone più, perché mi mancava!, proprio come accade in un rapporto di affetto intensissimo, volli cercarlo, tornare a vederlo,  parlargli,  sentirlo: quando molte, moltissime cose erano cambiate, in primo luogo con quella che io chiamo la ‘liquidazione’ del PCI. Così restammo assieme in questa frazione finale della sua vita e così si ricreò, per esempio favorendo il mio ingresso nella FILEF (Federazione Italiana Emigrati e Famiglie, fondata da Carlo Levi) di cui era il Presidente; si ricreò una sorta di clima, ma anche di ambiente, ‘socialista’, quell’humus in cui riuscivamo, lui auspice ed io felicissimo, a riannodare le fila di un discorso ‘brutalmente’ interrotto.

Come tra il febbraio-marzo 1981, allorché a Mosca si teneva, se non erro, il  XXVI Congresso del PCUS, al quale, al colmo dell’età brezneviana, Berlinguer non intervenne e nel corso del quale la delegazione italiana, guidata da Giancarlo Paietta, poté  prendere la parola nella storica ‘Sala delle Colonne’, anziché nella sede del Congresso. Un modo questo, si disse, per sottolineare la consistenza di un dissenso di fondo tra i due Partiti che pure si dicevano in gergo ‘fratelli’. Bene, in quella circostanza, ben avvertendo il contesto in cui si collocava quel dibattito, nazionale ed internazionale, io, giovane segretario di sezione comunista, diressi un telegramma al presidium del congresso, lungi mille miglia dal prevedere quella sorta di terremoto che ne seguì. Sapevo che non ero l’unico a quel gesto e che diverse decine di organizzazioni di partito lo facevano, Gigetto seppe tutto. Seppe che mi ero mosso con correttezza, avvertendo la federazione provinciale del Partito e, forse, condividendo anche il testo, la sostanza del mio messaggio, ma non me ne parlò mai, per ragioni che posso, senza il senno di poi, ben intendere, tra le quali quella della mia presunta e scarsa considerazione politica del gesto che compivo! Il mio messaggio, assieme ad uno analogo inviato dalla Toscana, venne ripreso, bizantinamente, come i russi sanno ben fare, in un editoriale della Pravda di quei giorni e così si seppe nel mondo intero che un oscuro segretario del PCI, di una oscura organizzazione di base, abruzzese, o per darsi notorietà, o per misterioso diletto narcisistico, o per chissà quali recondite ragioni, si era permesso di intervenire laddove non gli era dovuto, violando così una sorta di legge non scritta, ma nella prassi profondamente ‘comunista’, quella cioè di contribuire alla presunta contraddizione politica, data appunto dai controversi e, per certi versi, criticissimi rapporti tra i due Partiti; rapporti che poi, come eco roboante e concretissima, finivano per accanirsi sulla stessa vita interna del PCI, come da sempre era stato. E così, mentre Paietta, rientrando a Roma, appositamente intervistato sull’argomento, se la cavava dicendo che i comunisti italiani sostenevano le stesse cose a Roma e a Mosca ed a Bruxelles, aggiungendo,  che ‘ha fatto bene quel compagno a esternare il suo pensiero’, in quanto, per l'appunto, coerente con le cose che noi abbiamo sempre dette, in realtà, tutto ciò, determinò la mia fine politica (in sede di segreteria regionale abruzzese del PCI) ed a nulla valsero le mie più che affidabili, chiamiamole ‘prestazioni culturali’, alle Frattocchie!  Gigetto sosteneva che ‘la storia continua’ e sicuramente, proprio per questo, non era un saccente, un ‘arrivato’, anche se non ignorava, eccome, la tecnica della politica, maggiormente nel governo del Partito! Però questa speranza era, e rimane, una cosa importante in lui e che ha saputo trasmettere a tanti, militanti e non. Ed è per questo che, oltre a non essere un vile, abbe i suoi nemici!

“Sapete” – diceva in un gruppo di compagni alla festa nazionale de L’Unità di Roma, me presente – “sapete che il compagno Varrasso legge Trotzky con una certa passione!?” E lo diceva uno che leggeva di tutto. Forse, ma sono sicuro, amava  guardare lo sforzo mio di capire il senso della battaglia comune. Un giorno di questi ultimi anni mi propose di leggere e commentare la bozza di una intervista, che gli era stata fatta al fine della pubblicazione di un libro, che poi, mi pare, non vide luce. Conservo ancora quelle carte e la minuta della lunga lettera che gli scrissi. Si collocava, adesso, nel PD guidato da Veltroni, ma non mi parve che ne fosse entusiasta. Lì, in quella intervista racconta sinteticamente la sua vita, con la sua storia politica, sostenendo, per esempio, che non divenne comunista stando nei campi di prigionia dell’URSS, per quanto i dibattiti suscitati dai commissari politici italiani lo interessassero molto. Nel campo conobbe e fraternizzò con ufficiali prigionieri romeni. Imparò il romeno e amò la Romania, che frequentò molto poi. Anch’io, e per diverse ragioni amai la Romania, come ancor oggi e ciò ci portava un comune sentire.  Gigetto aderì al Partito allorché rientrò in Italia, dove pure fece il prigioniero, perché dirigente delle lotte contadine nella Marsica. Adesso, in questi ultimi anni, rileggeva, in una sostanziale continuità ideale e politica,, le  vicende della sinistra italiana e del PCI.  Nel PD si sarebbero inverati le speranze ed i programmi di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer!  Il primato, gramsciano e togliattiano, della politica, quella politica della trasformazione, per lui era stato raccolto dal PD. Il nostro fu un dissenso radicale! “ Dobbiamo fare, secondo te, la rivoluzione socialista!?”, mi disse con una calma glaciale. “Non possiamo”, gli risposi io. “Non possiamo perché, tra l’altro, non esiste la sua guida!”Allora lui rise e vide che il nostro non era un dissenso irrimediabile e che io, non sorpreso, non cambiavo discorso! Prevaleva tra noi una profonda onestà intellettuale. Ecco, Gigetto non avrebbe detto mai e non lo ha mai detto, da uomo serio e consapevole, che ‘aveva militato nel partito comunista senza essere comunista’, per riprendere una citazione, aneddotica quanto si vuole, ma pregna di significato storico, del suo più recente ‘mito’ politico veltroniano.  Ed infatti lui non poteva ‘rinnegare’ quanto amato, non poteva mentire a se stesso, soprattutto nella più recente collocazione politica, nel PD, perché aveva posseduto, conquistato a duro prezzo, un ideale di giustizia, di progresso e di pace, che ora innovava e spargeva, ricordava ed approfondiva, rafforzando e sostenendo la sua personalità di uomo consapevole dei destini suoi  e del nostro tempo.

Molte cose si possono e si debbono dimenticare, per averne di nuove, utili al nostro rinnovamento, intellettuale e morale. La sua lezione di dirigente comunista è patrimonio della storia democratica del nostro Paese.

 

 

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