Gabriella Albertini, una vita per l’arte
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Pubblicato il 19/09/2012 12:12

Gabriella Albertini, una vita per l’arte

grilli, albertini

di Giulia Grilli

 

Gabriella Albertini è una donna che ha dedicato la sua vita all’arte e alla cultura. Una figura delicata e fragile come il cristallo con un’anima determinata e tenace.

 

Costretta ad allontanarsi da Pescara in piena adolescenza per recarsi a Roma, scoprì l’arte visitando i musei. Circondata dall’affetto dei parenti visse, nonostante tutto, una solitudine interiore “molto più amara di quella che può colpire una persona adulta”. Le opere dei grandi maestri divennero i suoi amici, il suo conforto  e speranza. Tornò a Pescara e sentì l’esigenza di inquadrare quella passione. Abbandonò gli studi classici per iscriversi al liceo artistico che era stato appena aperto in città. “Avevo bisogno di una guida, un confronto, un colloquio e di fare i miei passi gradualmente. Così è nato il mio lato creativo, ma non escludo che nella formazione del mio pensiero e del mio essere, lo studio della musica abbia avuto un ruolo fondamentale. Iniziai a suonare il pianoforte a 5 anni e ci volle molta disciplina. Il ritmo vive in noi stessi, è vita ed esercizio. Ma queste riflessioni sono venute molto dopo, quando ormai ero adulta”.

 

Come nasce il suo stile?

 

Riconoscere l’autore di un’opera senza che questa sia firmata vuol dire che qualcuno ha saputo raccontarti la sua storia e un pezzo di sé. Ma questo non si fa da un giorno all’altro, ci vuole tanto tempo e viene spontaneamente. Non è una scelta,  nasce dopo aver provato molte strade e dopo aver sbagliato. Io non sono una donna virtuosa, ma spero di essere un’interprete. Il mio stile quindi nasce lentamente. Nella vita, poi, è fondamentale cambiare, non essere sempre uguali o fare sempre le stesse cose. La vibrazione dell’anima è essenziale, altrimenti si diventa piatti.

 

Qual è la tecnica che preferisce?

 

La mia l’ho trovata nel tempo. Ogni pittore ha la propria tecnica. Ci sono quelle di ordinaria amministrazione, come l’olio e l’acquerello e poi ci sono le tecniche che ognuno di noi si fa. Negli anni 60 c’era il colore materico, si respirava nell’aria e così ho cominciato ad impastare terre, colle e olio. Il colore mi deve appoggiare, mi deve sostenere. Così nasce la mia tecnica mista che si può anche insegnare, ma alla fine perché farlo? Ognuno deve trovare la sua. Per un periodo ho usato molto l’incisione su lastra. L’acquaforte oggi funziona come nel lontano 1400, ma necessita di molti passaggi e di altre persone esperte,  per cui oggi non la faccio più.

 

Cos’è per lei il colore?

 

È emozione, è materia, è splendore. Il colore dev’essere bello, anche se pallidissimo. Non è bello ciò che è vistoso, ma ciò che ha un contenuto. Finisce con l’essere  una cosa tattile e un elemento essenziale della mia creazione.

 

Perché tanto blu nei suoi dipinti?

 

A me piace molto il colore blu. Ho cominciato ad usarlo dopo aver visto un quadro di Van Gogh che ritraeva una chiesa con un cielo bellissimo. Vedendo l’opera dal vivo me ne sono innamorata. Lo inserisco per convinzione e cerco sempre di fare blu diversi, anche se alcuni non sono mai riusciti due volte.

 

Qual è il messaggio delle sue opere?

 

Non lo so. Non mi sono mai posta il problema se la mia pittura possa essere significativa o meno. Sicuramente dà un messaggio. Ho sempre inserito dei simboli nei miei quadri e solo dopo mi sono chiesta cosa significassero. Mi sono accorta che riproduco sempre la lotta tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo. C’è un certo equilibrio tra queste forze. E la vita dopotutto è fatta così.

A volte mi chiedono: perché hai fatto quella cosa? Ma non lo so, non è questo ciò che interessa. L’importante è che l’opera abbia un valore, una struttura, un suo essere. È come quando conosci una bella persona, non c’è bisogno di chiedersi nulla, te ne accorgi subito. Così è l’opera. Comprenderla dipende molto dalla personalità di chi la osserva. Questo è l’enigma della vita, e per fortuna che c’è altrimenti saremmo tutti piatti. Io questi problemi non me li pongo. Forse c’è una maggiore semplicità in chi lavora rispetto a chi cerca di interpretare e leggere l’opera.

 

Come si può definire il suo stile artistico?

 

Credo sia un aspetto del surreale e dell’onirico. È surreale perché di tutto quello che dipingo non esiste niente. Onirico perché ha qualcosa di pensato, sognato, astratto. Ma non sono una concettosa, e non voglio esserlo, proprio perché la libertà interiore dovrebbe offrire sempre la strada. La pittura è un gioco di rapporti, di linee, di volumi, di colori.

 

Qual è l’opera che più la rappresenta?

 

L’epoca delle cattedrali mi è molto cara. Anche gli ultimi lavori che ho fatto a cicli hanno un gran significato. Per me il bestiario è stato importante, ma mi sono accorta che non l’hanno capito. Anche le farfalle, che ancora non espongo mi piacciono. Sono lavori che hanno un valore perché legati ad alcuni episodi della mia vita, ma è come se chiedessi ad una madre di cinque figli a quale vuole più bene, lei non saprebbe risponderti.

 

Cos’è per lei la pittura?

 

Una figlia maggiorenne che ancora mantengo…

 

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