Se esiste una differenza tra guardare e vedere, per Alessandro D'Aquila è la comprensione delle cose. In un mondo veloce che ci bombarda di immagini, in una società incentrata sull'alta definizione, questo giovane chietino, di soli 23 anni, riesce a stravolgere gli equilibri.
Perché Alessandro è un artista misterioso ed enigmatico. I suoi sono quadri sintetici, essenziali. La cura del dettaglio è affidata alla fantasia dell'osservatore, alla voglia di scoprire il proprio mondo in un perimetro artistico che delinea solo i contorni della realtà. E quando l'occhio si sofferma su queste opere, non può che essere catturato da puntini indecifrabili. Sono parole in braille, il sistema di scrittura e lettura per i non vedenti. Ed è nell'evidenza che Alessandro riesce a rendere un quadro illeggibile a chiunque. Solo la curiosità di voler capire rende lo spettatore partecipe dell'opera.
Grafico pubblicitario all'Ikea di San Giovanni Teatino, studente alla specialistica di Economia a Pescara, Alessandro ha in sé l'energia della sua età e la voglia di infrangere le regole, quelle che non funzionano più. E gli occhi grandi, che parlano prima della sua voce, si accendono magicamente quando racconta del Gruppo Fu*turista di cui è membro, dell'incursione alla Biennale di Venezia, dei consensi ottenuti con performance di pittura in pieno nord d'Italia.
Quando è iniziato il tuo percorso artistico?
Mi è sempre piaciuta molto l'arte contemporanea, ma da due anni mi sono appassionato alla scuola di Piazza del Popolo di Roma e mi sono perso tra le opere di Schifani e Festa. Ho visitato molte gallerie nella capitale e sono stato catturato da questo mondo, dai colori e dalle forme. Così ho iniziato a giocare con il computer perché se prima tela e pennello erano gli unici strumenti di espressione artistica, oggi la tecnologia ci permette di sondare altri territori. Solo ultimamente i miei amici del Gruppo Fu*turista mi hanno spinto a prendere il pennello in mano, ed è come se stessi facendo il percorso al contrario. Normalmente parto da alcune immagini reali, da fotografie scattate da me o da altre persone, le privo di tutto per vedere cosa rimane. Disegno cose piatte, asettiche, quasi come se appartenessero ad un altro pianeta.
Perché la scelta di inserire il braille nei tuoi quadri?
Un giorno ero in ascensore e stavo notando che su ogni tasto c'era il numero del piano scritto in braille, ma io non sapevo leggerlo. Soffermandomi su questo paradosso sono giunto alla conclusione che io che ho gli occhi per vedere divento un non vedente. Ho deciso così di inserire nei miei quadri delle parole in braille, per dire cose senza che gli altri possano comprenderle. La gente si trova davanti ad un linguaggio che non conosce e l'impatto visivo di quei puntini è formidabile. In realtà è un alfabeto normalissimo e le parole sono scritte in lingua italiana, eppure nessuno le sa decifrare.
Quali sono le reazioni di chi si sofferma sulle tue opere?
C'è chi guarda, non capisce e va oltre. Altri invece fanno domande, spinti dalla curiosità. La soglia di attenzione, in termini di tempo, è crollata vertiginosamente negli anni. Ci soffermiamo sulle immagini troppo poco perché internet ci ha abituati a scorrere con il mouse ricevendo milioni di input. Quando c'è un elemento di disturbo, che può essere una parola in braille o un determinato colore, allora qualcuno si blocca. Io cerco di agire in quel momento, nell'attimo prima in cui la persona se ne vada. All'interno di chi chiede il significato dell'opera c'è una distinzione: chi accetta la novità, e chi rifiuta l'utilizzo di quel linguaggio. Alcuni mi hanno dato del cinico, ma per me questo è un sistema di comunicazione normalissimo. Le critiche servono a comprendere che ho colpito nel segno.
Sulla tua pagina tumblr affermi "vorrei rendere l'arte visiva non adatta a chi vede ma a chi guarda". Qual'è il senso di questa frase?
Oltre al linguaggio braille, utilizzo una tecnica rappresentativa molto schematica. I miei sono paesaggi sintetici, nel senso che se devo rappresentare il mare lo faccio nel modo più semplice possibile, senza entrare nei dettagli. Descrivo creando un distacco tra gli elementi, come se ci fosse una pausa narrativa, una virgola. Nonostante stia parlando della realtà, il mondo appare in maniera differente. Alla fine l'osservatore deve fare uno sforzo maggiore per capire dove si trova, perché io non svelo nulla. Chi guarda ha il compito di interpretare mentre io delineo solo i contorni.
Lo scorso 13 luglio ti sei inserito "clandestinamente" alla Biennale di Venezia. Com'è stata questa esperienza?
L'idea è partita durante una conversazione con Iucu, Lele Picà e Giammatteo Rona. Noi quattro siamo i membri del Gruppo Fu*turista, un movimento nato dalle menti di questi tre amici di Pavia con lo scopo di promuovere l'arte e far in modo che l'artista non sia turista, ma protagonista. Critichiamo la chiusura di questo "settore", la rigidità che lo contraddistingue. L'icona di questo concetto è proprio la Biennale di Venezia in cui puoi esporre solo se se iscritto a una galleria pazzesca o se paghi cifre elevatissime. Così ci siamo detti: esponiamo lo stesso indossando le nostre opere. Il 13 luglio siamo entrati come visitatori, con dei camicioni che nascondevano i quadri che avevamo attaccato alle t-shirt con il velcro. Tolte le coperture, e grazie a due amici che ci immortalavano con le macchinette fotografiche, la gente ha iniziato a incuriosirsi.
Quali sono state le reazioni degli spettatori?
Ci hanno fatto tutti i complimenti. Quando abbiamo svelato che la performance non era autorizzata abbiamo ricevuto ancora più consensi. E' stato un tripudio di tag, e la cosa per noi è fondamentale perché ci teniamo a diffondere l'arte anche tramite la rete. Siamo riusciti a sensibilizzare le persone, a far leggere i nostri manifesti, a ricevere inviti e richieste di nuove performance. Per un po' abbiamo sperato che ci cacciassero, ma le guardie della Biennale si sono arrese. Il nostro scopo, quello della divulgazione dell'arte, è stato raggiunto.
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