#iosonocucchi, quando l’indignazione si fa arte
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Pubblicato il 11/11/2013 10:10

#iosonocucchi, quando l’indignazione si fa arte

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di Giulia Grilli

"Una giustizia che non vede e non sente è una giustizia senza voce. Scatta con Instagram un primo piano del tuo volto bendato/imbavagliato o con le orecchie tappate e aggiungi il tag #iosonocucchi. La foto andrà a comporre un tappeto di 100 mq raffigurante il volto di Stefano Cucchi". E' un animo pieno di indignazione, quello di Luca Di Francescantonio, graphic designer di Lanciano, e dei ragazzi di IgersAbruzzo, Nicola D'Ercole, Debora Nasuti e Antonella Fantini. Una giustizia tradita e la speranza che il sistema possa funzionare davvero. Due motivazioni forti che hanno spinto questi giovani abruzzesi a collaborare per realizzare un'installazione artistica esposta in Piazza della Rinascita a Pescara, durante il Festival delle Letterature, tenutosi dall'8 al 10 novembre. E' bastato utilizzare un hashtag che riassumesse le vicenda, per scatenare la risposta delle persone attraverso i social più utilizzati in rete. Perché, come tengono a precisare questi giovani abruzzesi, "Tutti possiamo essere Cucchi".

 

 

Com'è nata l'idea di questo progetto?

Luca. Ricordo di essermi bloccato davanti al telegiornale, e di essere rimasto senza parole ascoltando la notizia riguardante Stefano Cucchi. Questo caso, come altri simili, resta dentro come una ferita aperta, e allora è necessario comunicare il dissenso, la rabbia e l'impotenza. Il tappeto di foto scattate con Instagram è un veicolo nuovo e materialmente "social" che può dare, anche se solo in parte, voce a queste emozioni. La prima cosa che ho fatto, dopo aver pensato al tappeto come protesta, è stata chiamare Antonella di IgersAbruzzo.it.

 

Come siete arrivati alla vostra collaborazione?

Luca. La nostra collaborazione era già stata collaudata attraverso (Con)Fusioni 2013 a maggio, e con il tappeto di foto durante le Feste di Settembre. Entrambi gli eventi si sono svolti a Lanciano. Anche in questo caso ho deciso di collaborare con gli Igers perché loro riescono a portare avanti un progetto enorme e non facile, tra i contatti e la realizzazione pratica.

 

 

Quante foto avete raccolto attraverso il tag #iosonocucchi?

Nicola. Abbiamo raccolto 550 foto da tutt'Italia fino al 27 ottobre, ma le persone hanno continuato ad inviarci immagini e a postare commenti, pur sapendo di non essere più nei tempi previsti per il tappeto.

 

Una giustizia che non vede, non sente e non ha voce. Perché ognuno di noi potrebbe essere Cucchi?

Antonella. Dal mio punto di vista, la giustizia può essere intesa come ideale da perseguire, ponendo al centro l'essere umano, eventualmente da recuperare, nella sua accezione più alta. Oppure come l'insieme di apparati e delle istituzioni che dovrebbero operare al fine di raggiungere quel valore morale. Quando ciò non accade, quando le persone mettono in secondo piano i diritti e le garanzie degli individui con cui si trovano ad operare, la giustizia non ha voce. E se, in un secondo momento, si fa finta di non vedere quanto è successo, quell'errore può essere considerato accettabile. La sentenza Cucchi, in questo senso, fa sì che lo sbaglio possa ripetersi all'infinito riguardando anche uno di noi.

 

 

I social, da mezzo di comunicazione e condivisione, a fonte di creatività. L'arte sta cambiando fino a questo punto?

Luca. Di fatto il tappeto è un'installazione artistica che serve per scuotere gli animi. Secondo i canoni contemporanei assume connotazioni "pop", è veloce da assimilare e alquanto vicino al linguaggio della nostra generazione. Credo che i mutamenti delle forme artistiche dipendano dall'interpretazione dei tempi, dei disagi e siano la rivoluzione di un'epoca.

Debora. L'arte è in continua evoluzione, per questo non direi che sta cambiando, ma semplicemente si adegua. I social rappresentano un mezzo di diffusione, ma sono anche una fonte di ispirazione perché fanno parte del quotidiano.

 

Credete nella giustizia?

Antonella. Credo in un a giustizia che pone l'essere umano in una posizione apicale. Gli operatori all'interno del sistema possono fallire, ma non riconoscere e correggere un errore determina un distacco dal fine che si dovrebbe perseguire.

Luca. L'attuale giustizia intesa come forma tecnica applicata alla società la considero in alcuni casi totalmente impreparata al contesto umano. Credo nella giustizia, quella senza ombre.

Debora. Credo nell'insieme di norme che regolano la convivenza civile, ma non credo nel "sistema giustizia" quando non rispetta i suoi stessi principi, quando si perde nelle sue stesse norme, tra il burocratico e il cavilloso.

Nicola. Credo in quello che "dovrebbe essere" la giustizia...

 

Per ora resta un caso riconducibile alla malsanità, quello di Stefano Cucchi. La Corte di Assise di Roma attribuisce la morte del ragazzo alla "malnutrizione". Arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di hashish e antiepilettici, viene decisa la custodia cautelare e stabilito il processo per direttissima il giorno successivo. Difficoltà a camminare e a parlare, ematomi agli occhi. Queste le condizioni fisiche del trentaduenne durante l'udienza.

Le condizioni peggiorano, e la richiesta di ricovero dell'ospedale Fatebenefratelli viene rifiutata da Stefano stesso dopo un referto che evidenzia lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all'addome e al torace. In carcere un ulteriore aggravarsi della situazione, e la successiva morte all'ospedale Pertini il 22 ottobre 2009. Le indagini preliminari hanno sostenuto che a causare la morte sarebbero stati i traumi conseguenti alle percosse, il digiuno, la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l'emorragia alla vescica.

Indignazione, ancora, nelle parole di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, presente nello Spazio Matta, a Pescara, sabato 9 novembre: "Mio fratello è morto per mano di una giustizia malata, prima ancora che di carcere. E' stato presente a un'udienza di convalida, per circa un'ora, di fronte ad un giudice e a un pubblico ministero che non si sono accorti delle sue condizioni. Stefano era stato appena massacrato nei sotterranei di quello stesso tribunale. Mio fratello in quell'udienza più volte si scusa perché non riesce a parlare. Ma tutti hanno fatto finta di niente, hanno detto di non aver visto. Stefano non è morto per malasanità, ma è finito in quell'ospedale solo ed esclusivamente perché le persone che dovevano tutelarne la vita hanno fatto esattamente il contrario".

 

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