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Pubblicato il 08/10/2012 16:04

La storia di San Cetteo

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di Antonio Alfredo Varrasso

Dell’esistenza di una inedita passio concernente la figura agiografica di Cetteo eravamo avvisati da tempo. Fu una mia viva curiosità, occupandomi di santi e di agiografia, a reperirla – così come era stato indicato – presso un codice della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, che raccoglie un certo numero di Vitae Sanctorum, scritte nell’Italia Settentrionale, per la parte principale databile alla fine del secolo XII (1).

Il testo che ci riguarda è il 61° di questa raccolta, preceduto da quello per i SS. Primo e Fortunato e seguito da quello dei martiri Vito e Modesto. Questo codice era in uso liturgico nella basilica di San Marco e contiene testi dei secc. XII, XIV e XV. Il nucleo più antico presenta l’opera di tre diverse mani, coeve, dall’identico modulo. Si tratta quindi di una copia per uso liturgico, che presenta importanti analogie con un Kalendarium venetum seculi XI, ms. membranaceo della Biblioteca di San Salvatore di Bologna (2). Il testo marciano ho cercato di collazionarlo con quello a suo tempo proposto dai Bollandisti, i cui mmss. di riferimento si dicono andati perduti. Si tratta, come è noto, dell’edizione settecentesca degli Acta Sanctorum: “De sancto Cetheo, alias Peregrino, episcopo Amitensi et martyre, in Aprutio Italiae provincia” (3).

I Bollandisti derivarono questo testo dalla collazione di scritture contenute in due diversi codici: da quello dei Canonici Regolari di Boddeken in Westfalia ( prima metà del sec. XV?) e da un altro attribuito al monastero dell’eremo di Camaldoli. E’ esaminando il testo bollandista che il Prof. Kortekaas segnalò un terzo ms., quello appunto della Marciana (4). Si tenga poi conto che il dossier su Cetteo è reperibile anche nella Biblioteca Hagiographica Latina , ove si ripropongono, per l'appunto, i testi utilizzati dai Bollandisti. Ma va segnalata una ulteriore tradizione manoscritta, già menzionata negli Acta Sanctorum, a sua volta citata, nel 1657, da Girolamo Nicolino, il quale riferisce di aver tratto le notizie su Cetteo “da una Vita di questo Santo, scritta a mano”, esistente nell’archivio vescovile di Chieti; ms. a cui accenna anche Lucio Camarra il Giovane (5).

Fu Francesco Brunetti ad evidenziare l’opera a stampa di Pietro de Natalibus (1330-ca.1406), vescovo di Iesolo, che pubblicò, abbastanza sunteggiata, la leggenda di Cetteo , nel suo Catalogus Sanctorum, del quale ho consultato l’edizione lionese del 1514 (6). Questa del de Natalibus, o Natali, sembra costituire l’edizione più accurata del testo su Cetteo, che verosimilmente apprese proprio dal ms. marciano in uso a Venezia. Infatti il de Natalibus riprende la nozione del ‘dies natalis’ del martire, il 13 giugno, che è presente solo nel testo marciano. Quella della fissazione della data del martirio, giorno e mese, è ulteriore problema da risolvere, proprio per la storia del testo. Vi accenna, ad esempio, il Ferrario (7) che annota al riguardo: “sicut postea compertum est”; dunque una data stabilita successivamente e, molto probabilmente, proprio attraverso la compilazione calendariale, che viene rappresentata nel ms. marciano, ove si pone la festa dei Santi Primo e Fortunato al 9 giugno ; quella di Cetteo, al 13 giugno e quella dei Santi Vito e Modesto al 15 giugno. Ma veniamo, brevemente, al contenuto della leggenda agiografica traditaci, come dicevo nel genere della passio, contenuta nel ms. marciano, nella quale, lo dico subito, si riscontrano notevoli differenze con il testo degli Acta Sanctorum.

* * *

I fatti si svolgono al tempo di Gregorio Magno (590 – 604), dell’imperatore bizantino Foca (602- 610) e del duca di Spoleto, Faroaldo (576 – 590/1), durante alcune fasi dell’invasione longobarda, che per gli Acta Sanctorum riguarda Amiterno, per il marciano Aterno. Il vescovo della città, chiamato Cetteo, proprio nel contesto dell’invasione, fugge presso il papa, abbandonando la sua sede, secondo uno schema che potremmo dire tipico dell’invasione longobarda, allorchè, come è noto, non poche furono le sedi vescovili distrutte ed abbandonate. A Roma trova il pontefice attento alle problematiche dell’invasione, al punto da prefigurare al vescovo fuggitivo una strategia di ritorno. I Longobardi stessi, a questo punto, invocano il papa, affinché restituisse il vescovo alla città: che è Amiterno, ovvero Aterno, secondo i diversi testi agiografici. Notiamo, però, che, nel testo marciano il viaggio romano dei Longobardi è autorizzato dal duca di Spoleto; nell’altro degli Acta questo particolare significativo è assente.

In ogni caso i supplicanti si mostrano pentiti al papa, che chiede a sua volta a Cetteo quale fosse la sua volontà. Questi assentì alla proposta, ma pose una condizione al suo ritorno: “… purché non si dissipino più, né si vendano i beni della Chiesa..”. Il che lascia prefigurare, come è stato notato, un ben determinato paesaggio politico e sociale della città. Si ha così il ritorno: verso Amiterno per gli Acta, verso Atermo per il marciano (8). In città regna un clima di sedizione e di scontro tra i due primates che l’hanno invasa e che la possiedono, con grande tristezza dei cristiani. Alais, uno dei due capi longobardi, è in combutta con Viriliano, conte in Hortanensium civitatis, ovvero, secondo il marciano, Ornensium civitate. Si tratterebbe delle città do Orte, ovvero di Ortona. Il comandante bizantino avrebbe dovuto sostenere il progetto egemonico di Alais. E, anche questo, possiamo ritenerlo uno schema intepretativo tipico dell’incontro-scontro tra Longobardi e Bizantini sul suolo italiano. Tanto Amiterno, quanto Aterno, hanno a che vedere, tra i secc. VI-VII, sia pure in misura diversa, con la presenza e l’influenza bizantina, nelle rispettive aree territoriali, oltre che, naturalmente, con i Longobardi (9).

Cetteo ignora il progetto egemonico di Alais. Egli è un vescovo leale e direi riconosciuto nella sua sede. Altri abitanti, però, tra cui il ‘cristianissimo’ Fredo, hanno contezza di quanto va preparandosi. Fredo conosce le intenzioni di Alais ‘perché lo spirito santo glielo ha indicato’. Puntualmente l’aggressione avvenne. Il vescovo ne è spettatore sbigottito e prega; prega affinché la città venga liberata, il popolo salvato, i nemici respinti, battuti, umiliati. Penso che qui si intenda precisare al meglio il rapporto con la città da parte del presule. Si cerca di delineare, nel concreto, i caratteri esteriori di una ‘tuitio’ e di una ‘defensio’; tratti distintivi, caratteristici della funzione non solo episcopale, ma del ‘patrono’, o di colui che nelle intenzioni dell’agiografo dev’esserlo. Cetteo è fedele al popolo cristiano, al ‘suo’ popolo.

E’ giusto agli occhi di Dio e degli uomini ed è interprete consapevole di una volontà provvidenzialistica e salvifica. Scoperta la sedizione, anzi respinta militarmente, sembrano emergere agli occhi dell’altro capo longobardo, il vittorioso Umbolo, le prove di un tradimento da parte del vescovo, mercé il quale i nemici potettero penetrare nella città, nei pressi della chiesa di San Tommaso, che qui è menzionata per la prima volta. Tradimento significa deliberata rottura di un patto di convivenza, che si determina attraverso un reciproco riconoscimento, garantito dall’autorità del papa. Per Alais la prospettiva è la morte e Cetteo sembra capire, anche se non le condivide, le accuse rivolte ad Alais e quindi interviene affinchè vi sia, certamente, per lui una punizione severa, ma non certo quella della morte. Proprio qui, il testo marciano si fa più lungo e descrittivo di quello degli Acta. Vi si introduce l’epiteto di ‘ariano’, rivolto al dominatore longobardo. Ma Umbolo, cioè il vincitore, attacca polemicamente anche Cetteo, descrivendolo per indegno dell’onore episcopale. Si noti questo costante, per quanto controverso richiamo al ruolo episcopale, che non è, a mio avviso, soltanto espressione di due visioni e concezioni, quella ariana e quella ortodossa, della figura del vescovo, ma anche segno di una volontà identificativa della città vescovile; una volontà che sà di invenzione del passato e che, proprio attraverso il racconto agiografico, dovrà contare in futuro. Dove, quando? La ricerca in questo senso l’ho avviata. Io credo a Pescara, cioè l’antica Aterno, dove tenta di affermarsi un potere vescovile. Ma questa è tutta un’altra storia.

La risposta di Cetteo alle allusioni calunniose di Umbolo è veemente e ricorre all’invettiva. Ancora una volta prega, con il salmo 108. ‘Clamabo ad Deum altissimum’. Il boia a cui è stato destinato il presule non ha il coraggio di colpirlo e, conseguentemente, Umbolo gli prefigura un altro supplizio. Nasce, come divevo, in questo contesto una violentissima invettiva di Cetteo verso Umbolo, che è sintomatica di una più recente composizione del testo. Nelle passiones antiche rarissimamente si ha l’invettiva del martirizzando. E, sempre qui, Cetteo si qualifica ‘servo dei servi di Dio’, che chiaramente richiama una tipica definizione papale di Gregorio VII, ancora oggi in uso dai romani pontefici! Segue il martirio, un martirio difficoltoso e coerentemente descritto nello schema delle leggende agiografiche epiche; un martirio introdotto da una voce celeste che preconizza al vescovo la corona martiriale e, più in là si parla anche della palma : distintiva, come si sa, iconograficamente, della figura del martire, al di là di diversi ed altri attributi. Una voce celeste informa Cetteo che per lui intercedono gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Questo richiamo, come è stato notato a proposito del contesto amiternino, è molto significativo.

Esso evoca, proprio con Michele, un culto controverso tra Bizantini, Longobardi e Cattolici e che avrà maggiore fortuna, successivamente, in tutto l’ambiente italico. Ma se, come sembra, il testo agiografico è tardo, oserei affermare oltre il secolo XII, questo richiamo potrebbe prestarsi a ben altre considerazioni, tutte coglibili in sede locale. In ogni caso il martirio è descritto, presentato quale aspetto di una intima vocazione di Cetteo. Una ulteriore invettiva gli si mette in bocca – che francamente echeggia uno dei ‘motivi’ più veementi di retorica antiebraica , quindi, recenti ,a cui probabilmente si ispira - contro gli esecutori morali e materiali della pena. Umbolo ordinò che Cetteo fosse condotto al fiume Piscaria, al ponte chiamato marmoreo, che nel marciano diventa marmoriolus. Gettato nelle acque, per tre volte Cetteo ne uscì illeso. Al che, legatagli al collo una grossa pietra, venne nuovamente precipitato, rimanendo ucciso. L’episodio agiografico si presta a diverse considerazioni. Altri esempi illustri di martirio simile potrebbero farsi. La macina al collo, per citarne uno, appartiene anche a Vincenzo di Saragozza, che ritroviamo effigiano nel bel portale quattrocentesco della chiesa di San Marcello in Anversa degli Abruzzi. E quello del martirio per affogamento nelle acque fluviali con l’ausilio della pietra ponderale ricorre anche in un testo liturgico di area pennese, ripreso dagli Acta Sanctorum di ottobre (ed. 1867), concernete i Santi Massimo, Venanzio e Luciano, che vennero affogati nel fiume Pescara. Sepolti, poi, nella chiesa di San Comizio, che era stata edificata dal presbitero ortonese Donato, con questi due ultimi vennero traslati, nell’868, in Penne, dal vescovo Geraldus-Grimaldus. Del loro ricordo si ha un’attestazione documentaria importante in un atto vescovile pennese del 1169 (10). Dunque, in fondo, non è così originale, come potrebbe pensarsi, il martirio di Cetteo, se non per assistere al fatto, veramente notevole, che quel corpo: “deambulabat..super aquas” con la sua pietra, per arrivare, in una notte, a Iaternensem civitatem, secondo il testo bodecense degli Acta e in Iaternensium civitatem secondo il marciano. Nozione questa che si accorda quasi al camaldolese, che ha Jaternensem. I Bollandisti precisano che per Iaternensem il ms. bodecense intende Jaderam, che è Zara in Dalmazia, così come il camaldolese. Si annota ancora che Pietro de Natalibus ha Jadenensem e che non si può parlare di Atriensis, perché troppo distante dal mare (11).

Le argomentazioni dei Bollandisti sono largamente insufficienti a chiarire il problema. I testi di riferimento, a questo riguardo, sono così interpolati e confusi da non poter cercare attraverso di essi una soluzione soddisfacente. Viene da chiedersi come entri Zara nella vicenda, attraverso quale tradizione, agiografica che fosse o no (12). Nel luogo di approdo si verifica quella che possiamo definire la inventio del corpo del martire e quindi delle reliquie. Come si vede trattasi di un racconto complesso. Il ‘ritrovamento’, se posso dire, è opera di un pescatore di nome Valeriano (onomastica affine, come si vede, a quella del conte Viriliano). La luce non naturale e splendente è l’elemento che lo guida; la luce che quel corpo emana. Corre dunque a darne notizia al vescovo ed ai consoli della Città. Si vuole, pertanto, questa come una città bizantina, a reggimento bizantino. Tutti i testi concordano su questo aspetto: il corpo di Cetteo pervenne e fu scoperto in un territorio vicino a quella Città, che era vescovile! E trattasi, verosimilmente, di una città di mare. Quest’ultima parte del racconto ha tutta l’aria di una nuova e cospicua interpolazione di un testo originario; un’aggiunta per essere più precisi. Il che postula il problema dell’adattamento locale della leggenda, segnatamente, io credo, in Aterno, indi Pescara (13).

Il vescovo ed i consoli accorrono presso il corpo e vedono anche la pietra legata al collo, per cui l’agiografo annota: “riconoscendo in quell’angelico volto chi era stato soffocato in acqua per il nome di nostro Signore, Gesù Cristo”, lo ritolsero con ogni venerazione e lo seppellirono, non senza avvertire un odore soave, con ogni onore. Non ne conoscevano il nome e lo chiamarono Pellegrino. Perché? E’ presto detto: “quia peregrino et incognito more corpus illius fuisset inventum”. Sostanzialmente il marciano dice la stessa cosa. Ma non è finita. Si vuole avere la prova della santità di quel corpo venerabile e misterioso. Una luce continua a brillare di notte su quel tumulo, che i pescatori vedono continuamente. Un cieco, abitante in Iaternensium civitate – i testi concordano – chiede d’essere condotto e di pregare sul sepolcro di Pellegrino. Viene esaudito e, miracolosamente, è risanato; quella luce è per lui, riacquista la vista. La validazione miracolistica del racconto è pertanto ottenuta, tanto che quel corpo, adesso veramente ‘santo’, viene ulteriormente traslato, per essere tumulato nuovamente al ‘nono miglio della città’, la quale, stando al marciano, è Iaternensium civitate. Come non vedere in questa seconda ricognizione, oltre alla rivendicazione della santità di quel corpo e delle sue virtù salvifiche, anche il progetto di una rivendicazione sostanziale delle reliquie, quindi, della validità e legittimità del culto. Gli Acta così concludono: “ Passus est autem beatus Cetheus episcopus in civitate Amiternensi et (ut diximus) delatus est in urbem Aternensem sub aquarum gurgidibus, ibique Peregrinus est appellatus…”.

Nel marciano si ha: “Passus est autem beatus Cetheus episcopus sub impiissimo consule Umblo idus iuniarium et vocatus in Iaternensium civitate martyr Peregrinus”. Le differenze tra i testi e le inconguenze, le contraddizioni, nei termini, dei diversi racconti sono rilevanti. Il tutto sembra rimandare ad una originaria fonte agiografica progressivamente contaminata. Valorizzando Aterno, la tradizione marciana risulta molto contraddittoria, ma è in quella particolare cultura agiografica che, credo, debbansi ricercarne le cause. Il che prefigura alla nostra ricerca ulteriori ed ardui orizzonti. Altro problema, ma che si connette al primo, è Pescara. Qui Cetteo, in qualche modo, ‘resiste’, diversamente da Amiterno e dovremmo farcene una ragione, che a mio avviso stà tutta dentro la storia pescarese dell’età moderna. Qui e non altrove, sia pure in forme e modalità discutibili, il culto permane (14).

E’ questa una vicenda che intendo sviluppare, nel tempo, con accresciuto rigore di ricerca e fantasia, contando sempre sull’ideale auspicio del grande Delehaye: “Quello che la storia non sa, la leggenda conosce!” 

Note al testo 1 Cfr. Civiltà medievale negli Abruzzi, a cura di S. Boesch Gaiano e M.R. Berardi, II, Testimmonianze , L’Aquila 1992, pp. 91-92. Per l’inedita passio si veda Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Cod. Marc. Lat. Z 356 (=1609). Legendae sanctorum, ff. 309 recto – 313 verso: Passio s. Cethei martyris et episcopi. Alio nomine Peregrinus, che trascriviamo in appendice al presente. 2 Cfr. Kalendarium venetum sarculi XI ex cod. mn. Membranaceo bibliothecae S. Salvatoris Bononiae, ed. S. Borgia, Romae, apud Benedictum Franciscum, 1773. 3 Cfr. Acta Sanctorum, II, Venetiis, 1742, coll. 688-693. Si veda anche Bibliotheca Hagiographica Latina Manuscripta (BHL), nn. 1730 e 1731. 4 Cfr. Civiltà medievale degli Abruzzi, cit., ibidem, passim. 5 Cfr. G. Nicolino, Historia della Città di Chieti, Napoli 1657, pp. 109-111; L. Camarra, De teate antiquo, Roma 1651. 6 Cfr. F. Brunetti, Sacra ac prophana Aprutii monumenta, a cura di R. Ricci, Teramo 2000, pp. 3 e segg.; P. de Natalibus, Catalogus Sanctorum et gestorum ex diversis voluminibus collectus, Giunta, Lione 1514. Libro quinto, cap. CXV: De sancto Peregrino episcopo et martyre. 7 Cfr. Catalogus Sanctorum Italiae in menses duodecim distributus (…) authore F. Philippo Ferrario alexandrine (…), Mediolani 1613, apud Hieronymum Bordonium. 8 Per un primo approccio critico a questi testi nel loro contenuto storico cfr. A. Clementi, Amiternum dopo la distruzione, DASP, L’Aquila, 2003, pp. 24 e segg.; G. Firpo, Atermun – Ostia Aterni e la sua rilevanza commerciale in età romano-imperiale, in “Abruzzo” – Rivista dell’Istituto di Studi Abruzzesi, n. 32-35, 1994-1995, pp. 325-339; G. Mincione, Aterno città e fiume nella ‘Corografia’ di L.A.Antinori, in Antinoriana, DASP, L’Aquila 1978, pp. 193-218. 9 Cfr. AA.VV., Pescara antica. Il recupero di Santa Gerusalemme, Carsa Ed., Pescara 1993; L. Lopez, Pescara dalla vestina Aterno al 1815, DASP, 1985; V. Ottaviani, Il cimitero cristiano antico e la chiesa di S. Vittorino presso Amiterno, L’Aquila 1987; G. Firpo, Bizantini e Longobardi a Ortona. A proposito di Georg. Cyprio 575, in ‘Rivista Abruzzese’, 43, 1990, pp. 261-279; A. Clementi, Amiternum dopo la distruzione, cit., passim. 10 Cfr. Acta Sanctorum, XII, Parigi e Roma 1867, pp. 190-193. Molto importante l’inno composto da Giovan Battista Cantalicio (sec. XVI), vescovo di Penne e Atri: Inter coronas martyrum, ripreso dall’Ughelli (Italia sacra, I, col. 1150). Ma un altro bell’esempio di affogamento con pietra ponderale è ravvisabile anche nella vicenda di Quirino ( Quirico?), di cui al Peristephanon di Prudenzio (IV sec,), per cui si veda Miracoli. Dai segni alla storia, a cura di S. Boesch Gajano e M. Modica, Viella Ed., Roma 2000, pg. 86. 11 Cfr. Acta Sanctorum, cit. alla nota 3, coll. 688-689: Commentarius praevius, passim. E’ il caso di riprendere il Brunetti (cit. a nota 6), che afferma: “Iandanensis civitas, quae in actis memoratur, nec ab antiquo nec a novo scriptore ponitur, ut illibi fuisse, vel nunc esse haud sic pro Iandanensis Hadhriensis reponenda est cum Maurolico, Galesino et Ferrario”. Spostando, quindi, l’attenzione su Atri, decisamente respinta dai Bollandisti. 12 L’individuazione di Zara (Jadera) a me sembra costituirsi semplicemente nella trasmissione dei testi agiografici, ovvero a seguito delle diverse letture del toponimo: un fatto puramente linguistico, ben noto, del resto, alla critica testuale agiografica, per cui si veda H. Delehaye, Le leggende agiografiche, Libreria Editrice Fiorentina (trad.), 1910. 13 Su Aterno quale sede vescovile si veda l’ormai datato scritto del Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (604), I, Città del Vaticano, 1927, pg. 363, che scarta decisamente l’ipotesi; Mons G.M. Saggese (1838-1852). La Chiesa Metropolitana Teatina con note illustrative di Mons. G. Travaglini. Estratto dal ‘Bollettino Diocesano Teatino’ Anni 1933-34-35, Chieti s.d.; G. Firpo, Aternum-Ostia Aterni, etc., cit., passim, che afferma: ‘non vi sono prove che in età cristiana (Aterno) sia stata sede episcopale’. 14 Nella Vistia pastorale fatta a Pescara, nel 1568, dall’arcivescovo teatino Oliva, non si accenna minimamente a S. Cetteo, per cui si veda G. Meaolo, I vescovi di Chieti e i loro tempi, Chieti 1996, passim. Un primo accenno al culto è nella Visita del 14 maggio 1593, ove si dice che la chiesa di Santa Gerusalemme di Pescara detiene un braccio argenteo, di antica fattura, con la reliquia di San Cetteo. Cfr. Archivio storico vescovile di Chieti, Sez. III, busta 519, ff. 51-52, passim. Lo stesso si ripete nel 1629 ( Ivi, busta 520, f. 90), allorchè lo steso titolo dedicatorio della chiesa ( S. Maria in Jerusalem) comincia ad integrarsi con quello di Cetteo: (…) accessit (l’arcivescovo teatino n.d.s.) ad ecclesiam parrochialem santi Hierusalem sive Ciathei. Al riguardo si veda di chi scrive, Da Santa Gerusalemme in Aterno a San Cetteo in Pescara, in ‘Abruzzo’, cit., II, pp. 423-437.

 

 


 

 

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