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Pubblicato il 10/09/2013 10:10

Quando Alberto Bevilacqua mi chiamava scherzosamente Pasquino. Quella volta del Flaiano

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Il ricordo di Dante Marianacci

L'avevo incontrato l'ultima volta nel mese di giugno dell'anno scorso a Taormina, in occasione del Taormina Press International Award, della cui giuria faceva parte, e del Festival del Cinema, con l'inseparabile compagna Michela Miti, e mi era sembrato piuttosto affaticato, dopo la recente malattia. Anche se però camminava con difficoltà, la mente era ancora lucidissima. Avevamo visto insieme, dopo la cerimonia di premiazione, nella splendida cornice dell'affollatissimo teatro greco, la partita Italia-Inghilterra, terminata poi 4 a 2 per noi. C'erano anche Sofia Loren, che durante l'intervallo ricevette un premio speciale, Carlo Verdone, che dopo la partita sarebbe stato intervistato insieme a Eleonora Giorgi, ed alcuni attori di Hollywood.
Poi, al ristorante si mostrò particolarmente vivace e raccontò, credo su richiesta del Prof. Enrico Tiozzo, dell'Università di Goteborg, anche lui membro della giuria del premio di giornalismo, di quando un giorno aveva accompagnato a Parma, la sua città natale, Charlie Chaplin, ed era con lui piombato in casa della madre, che era una fan del grande attore, lasciandola interdetta. Non si capiva bene se fosse una storia vera, o piuttosto il frutto della sua straordinaria immaginazione e visionarietà, che avevano dato origine a tanti personaggi memorabili, a cominciare dalla Irene Corsini di La Califfa, il romanzo che agli inizi degli anni Sessanta lo aveva reso celebre in tutto il mondo, grazie anche al film, da lui diretto, con la straordinaria interpretazione di Romy Schneider.
Non avevo ancora letto il suo ultimo libro, che mi aveva appena regalato, Roma Califfa, una ricca carrellata di personaggi famosi, Fellini, Sordi, Tognazzi, Mastroianni, Domenico Rea, Orson Wells, Ennio Flaiano, come lui venuti dalla provincia, e di episodi della sua vita romana, in cui raccontava anche dell'incontro di Charlot con la madre.
Quella sera ricordammo anche del nostro primo incontro e della sua partecipazione al Premio Flaiano di Narrativa del 2005, quando fu in finale con Dacia Maraini, Raffaele Nigro, Gianni Celati e Domenico Starnone. La giuria popolare decretò poi vincitore del Superflaiano Raffaele Nigro e lui ci rimase malissimo e non fece nulla per nasconderlo.
L'avevo incontrato la prima volta, quando era nel pieno del successo, agli inizi degli anni Ottanta, in un piccolo paese della provincia di Teramo, Arsita, dove si faceva un premio di poesia organizzato dal compianto Igino Creati, che lì era nato. In quella occasione gli feci una lunga intervista che poi venne pubblicata sulla rivista "Oggi e Domani" di Edoardo Tiboni. Ricordo che a tavola, apparecchiata nella sala dei professori della scuola media del paese, gustammo un formaggio pecorino di grande qualità e un piatto prelibato a base di carne di montone, che si chiamava "coatto" e che faceva parte della tradizione culinaria locale. Quella sera erano presenti due cattedratici di dialettologia che si dilungarono in una interminabile disputa sull'origine della parola "coatto": l'uno, se non ricordo male, che lo voleva riferito al tipo di cottura della carne, l'altro invece alla vendita coatta di animali morti accidentalmente che in tempi lontanissimi si faceva, con il banditore per le strade. Qualunque fosse l'origine della parola - e Bevilacqua, non poco spazientito, era pienamente d'accordo - da quel pentolone fumante, sistemato al centro della grande tavolata, emanava un profumo straordinario di erbe selvatiche, e il sapore di quella carne era unico. Verso metà della cena ci appartammo in un'altra stanza per l'intervista, non senza aver prima commentato quella interminabile disquisizione filologica e lui mi disse, dopo una mia forse troppo ironica considerazione: "Ma tu mi sembri peggio di Pasquino, giovane amico mio", riferendosi alla famosa statua parlante di Roma, che si trova all'angolo di Palazzo Braschi, che faceva parte della "congrega degli arguti." Parlammo di molte cose quella sera, del grande successo che stava avendo con Il curioso delle donne, della sua Parma, soprattutto della comunità del Fiume, di quell'ambiente ch'era stata la sua palestra di vita, tra emarginati pieni di fantasia, della casa dov'era vissuto da bambino, piena di donne, perché sua nonna aveva avuto ventuno figli, quasi tutte femmine. Si definiva un visionario scenico, con un'eco di musica di fondo, un narratore con una matrice lirica, che amava Céline, Léautaud, Caproni e Bertolucci, il suo professore di liceo. Parlammo anche della grande scontrosa solitudine di un uomo di successo come lui. In quei giorni meditava di lasciare l'Italia, di andarsene a vivere all'estero, in Sudamerica forse, per cercare nuove provocazioni. Poi in Sudamerica non ci è andato e le nuove provocazioni ha continuato a cercarle in Italia, regalandoci altri bellissimi libri, in prosa e in poesia, l'ultimo dei quali è rimasto proprio Roma Califfa. Sono andato a cercarlo quell'ultimo libro, che ho portato con me qui al Cairo, da dove, nell'inusuale silenzio assordante di una delle notti di coprifuoco, ora scrivo questa nota, e vi ho trovato una curiosa dedica, che avevo dimenticato: "Al mio amico che, sin dalla prima volta, chiamai Pasquino...Amico caro, in cui rivedo poeti romani da me amati, continuiamo a portare Roma come un verso che lei ha scritto per noi!"

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