Solare, carismatico ed espansivo. Enrico "Chicco" Cerea non vuole sentirsi dare del lei "Dai, non sono mica vecchio!" esclama sorridendo. Chef e patron del ristorante Da Vittorio a Brusaporto, Bergamo, tre stelle Michelin, porta avanti l'eredità del padre con dedizione e sacrificio, grazie alla collaborazione della numerosa famiglia.
Incontrarlo al Cafè Les Paillotes, dove, in modo impeccabile, ha servito quasi 180 clienti, è un'esperienza incantata. I suoi piatti affascinano il palato in un crescendo di sapori che raggiungono il giusto equilibrio, rimanendo ancorati alla tradizione lombarda. Complice la magia di una calda notte di inizio agosto e del rumore del mare, le portate narrano la passione di un uomo sicuro, determinato e che ama il suo lavoro. Ed è così, che in ogni piatto, lo chef stupisce con piccole opere d'arte.
Qual'è stata la tua prima esperienza in cucina?
È difficile ricordarmi quando sono entrato esattamente in cucina, ma già all'età di sette, otto anni mio padre mi chiamava ad aiutarlo, perché per fortuna c'era tanto da fare. Trascorrevo ore a pulire scampi e calamaretti, mentre io volevo andare a giocare con gli amici. Odiavo quei momenti, perché quando sei ragazzino certe cose non le capisci. Ma mio padre è stato capace di trasmettermi la passione per questo lavoro, mostrandomi le soddisfazioni che può darti, perché cucinare è quasi come una droga. Mi ha insegnato a rimanere sempre me stesso, a non montarmi la testa e a rispettare le persone e i clienti. Rendere felice qualcuno è una gioia che ti appaga di tutte le altre mancanze.
Se tuo padre non avesse aperto un ristorante e non ti avesse trasmesso la passione per questo lavoro cosa avresti voluto fare?
Il veterinario, perchè amo molto gli animali. Ma da ragazzino un giorno ero pompiere, un altro pilota di macchine da corsa. E invece è assurdo pensare che oggi, almeno così sembra da un recente studio, i bambini vogliano diventare cuochi. Le scuole alberghiere stanno registrando un boom di iscrizioni e credo che questo fenomeno sia legato ad un'eccessiva mediaticità rivolta alla realtà gastronomica che, secondo me, sta facendo del male. Quando i ragazzi capiranno che stare in cucina non è Masterchef, ma è sacrificio e lavoro duro, cosa faranno? Avremo rovinato anni preziosi a questi giovani ai quali è stato mostrato solo il lato bello dell'essere un cuoco.
E qual'è il lato negativo della vita da chef?
Che poi cosa vuol dire essere chef? Noi siamo tutti cuochi alla fine. Chef perché sei a capo di una brigata, perché hai più responsabilità, ma come prima cosa sei un cuoco e il fatto di esserlo richiede sacrificio. Non si ha vita familiare, nè il tempo per coltivare hobby o per fare sport. C'è solo lavoro, lavoro, lavoro. Io ho passato anni tra temperaggio del cioccolato, pulizia del pesce e preparazione della carne. Ma tutte le esperienza fatte costituiscono un arricchimento talmente forte che ti portano ad essere sicuro di quel che fai.
Secondo te che differenza c'è tra uno bravo cuoco a casa e uno chef di un ristorante?
Un cuoco a casa, secondo me, si adatta ai gusti della famiglia in cui vive, quindi si adagia sulle stesse ricette e diventa ripetitivo. L'abitudinarietà è l'errore più grande che si possa fare in cucina. Un cuoco di un ristorante, invece, è alla continua ricerca, vuole attrarre sempre più clienti, mantenere quelli che ha proponendo cose nuove. È più stimolato, più vivo e ha un confronto diretto con la gente che porta con sé la propria esperienza. È in continua evoluzione.
Un ingrediente al quale ti senti più legato?
Non ce n'è uno in modo particolare, perché sono molto eclettico. La mia prima passione è stata la pasticceria, ma dai dolci sono passato al salato. Un giorno mi alzo con la voglia di cucinare il pesce, il giorno dopo con la voglia di fare un soufflè, o il pane con il lievito madre. Amo la cucina a trecentosessanta gradi, quindi mi è difficile dire cosa mi piaccia di più. E poi è come chiedere se preferisco una bionda o una mora. Ci sono donne bellissime indipendentemente dal colore dei capelli!
Se dovessi andare a cena fuori (ma gli chef vanno a cena fuori?), in che ristorante andresti?
Io amo andare a cena fuori, mi piace la compagnia delle persone, della famiglia. Mi piace provare sempre ristoranti nuovi. Proprio ieri un collega mi chiedeva quali fossero i miei locali preferiti, ma citandone alcuni farei torto ad altri. Al di là di questo, non vado mai nello stesso posto, ma faccio 150 km per provarne uno di cui ho sentito parlare, o prendo un aereo e parto per confrontarmi il più possibile.
Che cosa si impara scoprendo altri ristoranti?
Si imparano tantissime cose. Il modo di servire un piatto diverso dal tuo, ingredienti nuovi, accostamenti ai quali non avevi pensato. Così finisci per chiederti: perché non ci sono arrivato anche io? È un arricchimento personale molto forte. Io ritengo che un buon cuoco sia una persona curiosa, che vuole vedere, conoscere e confrontarsi sempre.
Durante il corso di cucina tenuto al Cafè Les Paillotes hai affermato "La ricetta è nel cuore e nella testa". Che cosa vuol dire questa affermazione?
Per fare qualcosa che colpisca il cuore e la testa delle persone devi metterci del tuo, la tua passione e la tua intelligenza. Solo così puoi ottenere una ricetta che possa piacere ed emozionare. Altrimenti diventa una cosa replicata, senza scheletro, senza lode. E allora non ha più senso...
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