Per Gennaro Esposito entrare in cucina è stata una vera e propria fortuna. E dai primi passi nella pasticceria dello zio al successo del suo ristorante La Torre del Saracino, a Vico Equense, ci sono esperienze, emozioni, maestri e determinazione.
Campano doc, la sua cucina risente delle influenze e dei profumi della sua terra. La prima stella Michelin è arrivata nel 2001, la seconda nel 2008. Le tre forchette del Gambero Rosso nel 2003, e ora una nuova avventura con Mammà, il ristorante di cucina partenopea a Capri, a due passi dalla famosissima Piazzetta.
Si racconta in quest'intervista uno dei più noti chef campani, al termine del corso di cucina organizzato dal Cafè Les Paillotes di Pescara. Per concludere una lezione incentrata sull'importanza della scelta della pasta di qualità, Gennaro Esposito ha deliziato i partecipanti cucinando uno spaghetto al pomodoro vesuviano colto nella sua terra.
È vero che ha iniziato a lavorare da piccolissimo?
Mio zio aveva una pasticceria a Vico e io lo aiutavo già a nove anni. Sono stati quelli i primi passi che mi hanno portato a scegliere di lavorare in cucina. Anche se è stato tutto casuale, ho capito che mi trovavo in un mondo che mi affascinava moltissimo e sono stato fortunato, perché ho sempre fatto quello che mi piaceva. Questo mestiere non smette mai di sorprendere, e permette di esprimere molti elementi: capacità, cultura, visione, gusto e curiosità. Ancora oggi non posso dare nulla per scontato e sono pronto a ricevere nuovi stimoli.
Quali sono stati i suoi maestri più importanti?
Ce ne sono stati tanti durante tutto il mio percorso. Mi sento molto legato ad Alain Ducasse, perché in un certo periodo storico del mio cammino mi ha indicato che, a parte il saper cucinare, ci sono diverse regole e aspetti legati al saper vivere e al sapersi relazionare che non possono essere sottovalutati. La ristorazione è un contenitore di design, intelligenze, sensibilità, mode, culture. È importante conoscere le tendenze dei clienti, dei turisti e dei gourmet, perché sono in continua evoluzione ed è necessario intercettarle con anticipo.
Dal 1992 ad oggi com'è cambiato il suo ristorante?
L'idea di aprire La Torre del Saracino è stata molto istintiva. Il cambiamento è stato radicale negli anni, perchè da ristorante di paese allineato alle proposte tradizionali, è diventato un luogo dove la gente viene appositamente. Nel tempo abbiamo cercato di diventare un'esperienza legata al cibo e a tutti gli aspetti della convivialità.
Quanto l'ha influenzata la cucina campana?
Tantissimo, perché non si può mai essere impermeabili all'educazione ricevuta e ad un ambiente così ricco di cultura gastronomica come il territorio campano, e in generale tutto il sud Italia. Nel ristorante cerchiamo di proporre una cucina moderna, elegante, attenta alla selezione dei prodotti, all'autenticità. Ma soprattutto raccontiamo un territorio, e siamo molto legati alla nostra località poiché le eccellenze sono tantissime. Ovviamente, non disdegnamo qualsiasi cosa che possa dare valore aggiunto alla nostra offerta.
Cosa vuol dire essere uno chef come lei?
Vuol dire avere tantissime responsabilità. La prima è dover educare una brigata di persone, quelle che orbitano attorno a te, e fornire motivazioni e obiettivi, perché il tempo condiviso è tanto, così come le esperienze e il sapere. È importante lavorare bene in squadra e rispettare gli altri, e l'ambiente deve esprimere serenità. La seconda responsabilità è nei confronti dei clienti, perché noi siamo custodi della salute delle persone e dobbiamo riuscire a donare un'esperienza importante, un arricchimento, perché nessuno viene a La Torre del Saracino solo per cenare, si viene per tanti motivi e sappiamo bene quali sono.
L'aspetto che ama di più del suo lavoro?
Che è una palestra quotidiana, in cui rimettersi in discussione. Non ci si sente mai arrivati, bisogna sempre conquistare il proprio posto e confermarlo. L'inquietudine deriva dal fatto che ogni mattina si inizia tutto da capo.
Quindi non si ritiene mai soddisfatto? Non dice mai "oggi è andata bene"?
È andata bene significa tutto e niente. Che cosa è andato bene? Ci sono troppi elementi, e io non mi occupo solo della cucina. A volte si rimane prigionieri della volontà di raggiungere l'eccellenza anche in altri dettagli come l'accoglienza, la cura dei minimi particolari. Trovo difficile mettere tutti questi tasselli al posto giusto, perché non è un lavoro facile. Anche un fiore fuori posto, una foglia secca possono farti sentire insoddisfatto. Ovviamente sono contentissimo del mio ristorante, perché è una storia vera, un'esperienza costruita giorno dopo giorno, con sacrifici e con il consenso dei clienti.
E il ristorante a Capri?
È una nuova sfida perché si ricomincia tutto da capo. Bisogna ricostruire quegli automatismi che per me sono ormai consolidati a La Torre del Saracino, ma che a Capri sono da rifare. Mammà è un posto dove prendere schiaffi e soddisfazioni, e penso che impareremo molto da questa stagione appena iniziata per essere pronti a correggere spigoli e sfumature.
Siamo in piena estate. Lontano dai ristoranti che pranzo si sente di consigliare ai pescaresi che mangiano in spiaggia?
Questo è il momento dei pomodori, per cui farei un panino semplicissimo con il pomodoro cuore di bue, quello da insalata. Aggiungerei un filo d'olio, un pizzico di sale. E poi cosa succede? Che mentre lo porti in spiaggia il pomodoro tira fuori l'acqua e insaporisce il pane. Questo è uno spuntino molto molto gustoso e non aggiungerei nemmeno la mozzarella, meglio mantenerci leggeri!
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