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Pubblicato il 22/04/2016 10:10

One Way Only, Stefano Schirato racconta il dramma dei migranti

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di Giulia Grilli

Esiste un'unica via per chi fugge dagli orrori della guerra, per chi ha perso tutto, per chi sa che non farà più ritorno nella propria casa distrutta dalle bombe. Si prosegue verso la strada della salvezza, animati dalla speranza di poter ricominciare una vita normale, percorrendo la direzione che conduce alla libertà. Ma in questo viaggio la dignità vacilla, le forze si affievoliscono, e i chilometri da percorrere diventano interminabili. L'Europa, intanto, resta a guardare, inerme di fronte all'ondata migratoria del secolo, mentre i controlli si inaspriscono e i muri vengono innalzati per bloccare gli arrivi dei profughi, voltando le spalle al senso di umanità.

 

Nel nome di quell'unica direzione da prendere, "One way only- Senza voltarci indietro" è il titolo della mostra fotografica di Stefano Schirato, inaugurata lo scorso 10 aprile al MuMi di Francavilla e che terminerà domenica 24 aprile. Quaranta scatti in bianco e nero per documentare l'arrivo dei migranti e il loro lento procedere in un unico verso, sempre in avanti, lasciandosi alle spalle il terrore e la violenza.

 

 

Stefano, quante volte sei partito e in quali luoghi hai deciso di scattare?

Sono partito tre volte: a settembre, novembre e febbraio. La prima volta mi sono fermato in Croazia, dove c'erano più di otto mila migranti. Ho continuato il viaggio per raggiungere il border tra Macedonia e Grecia, e infine sono giunto a Lesbo dove arrivavano 50 imbarcazioni in tre ore. La seconda volta mi sono fermato nella No Man's Land: i migranti scendevano dal treno nell'ultima città macedone, percorrevano circa 5 km in una terra di nessuno per raggiungere la Serbia dove venivano registrati. Potevano rimanere massimo due giorni nella città di Presovo, poi dovevano andare via. Sono risalito in macchina, fermandomi in tutti i confini fino a raggiungere l'Austria, una delle mete più ambite dopo la Germania. L'ultima volta, invece, sono rimasto tra la Macedonia e Idomeni, in Grecia. Ovviamente vorrei ripartire, perché il lavoro non è ancora finito, ma devo capire quali saranno le nuove rotte.

 

 

 

 

Perché hai deciso di documentare questa situazione? Cosa ti ha spinto a partire?

E' una bella domanda, e credo sia stata proprio una spinta, quella di avere l'urgenza di capire ciò che accadeva a pochi chilometri da qui. Questo è un evento storico di portata epocale e volevo documentarlo. Una volta arrivato sul posto ho capito che era necessario dare dei nomi a quei volti, un'identità a queste persone e alla loro sofferenza. Bisogna raccontare queste esperienze per comprendere le vite di questi esseri umani e rendersi conto, che alla fine, al loro posto, potevi esserci anche tu, e che i loro figli non sono poi così diversi dai tuoi.

 

 

Qual è stato il momento più difficile a livello emotivo?

Ce ne sono stati tanti, troppi. Ma credo che il più forte sia stato quello in cui, davanti a una bambina, ho riconosciuto una delle mie figlie e allora mi sono bloccato. Era lì, sola, con gli zii e il fratello, aveva perso i genitori, era ancora impaurita dal mare, aveva freddo e io, nel guardarla, non sono riuscito a scattare e ho iniziato a piangere. Un mio collega polacco ci ha immortalati mentre io le accarezzo il volto. Sono rimasto legato a quella piccola, e mi chiedo ancora se si è salvata, se sta bene, se ha trovato una sistemazione.

 

 

 

 

A livello tecnico, invece, hai incontrato qualche impedimento?

Entrare negli hotspot negli ultimi due viaggi è stato sicuramente più complicato, i controlli si erano inaspriti rispetto a settembre. Non potevo scattare in maniera del tutto tranquilla senza che nessuno mi disturbasse o mi fermasse. A febbraio, poi, seguendo il flusso dei migranti nella No Man's Land ho superato il confine della Serbia e mi hanno arrestato. Ho temuto che mi prendessero la scheda, che tutto il lavoro andasse perduto, invece alla fine mi hanno rilasciato. Ma come me, tanti giornalisti e fotoreporter sono stati fermati per almeno un giorno esattamente nello stesso tratto.

 

 

 

 

Senti di aver imparato qualcosa da questa esperienza?

Si, decisamente. Ho imparato che bisogna guardare queste persone negli occhi, perchè non sono poi così diverse da noi. Ognuna di loro ha delle storie alle spalle, vite come le nostre distrutte in un momento. Sono felice di aver ascoltato, di aver condiviso, di aver dormito con loro, di essermi bagnato in mare. Non biasimo chi teme che quest'ondata di migranti, ma la realtà è che non possiamo fare di tutta un'erba un fascio. Nel mentre, condivido queste mie esperienze con i miei figli, per insegnare loro che esiste un mondo diverso da quello che conoscono.

 

 

Hai trovato qualche differenza tra ciò che viene riportato dai media e ciò che hai visto con i tuoi occhi?

Assolutamente si. Il filtro dei media ci mostra un 30% della realtà. Devi poter ascoltare i passi lenti di quella gente, le urla in mezzo al mare per comprendere che è molto di più di quello che ti raccontano. Mi sono confrontato con tanti giornalisti che stimo, e che riportano i fatti fedelmente e professionalmente, ma credo che la stampa e la televisione limitino la nostra attenzione. Vedere con i propri occhi ciò che accade è devastante. Anche la fotografia è un filtro, sia beni chiaro, ma sono sicuro che quando un'immagine riesce ad incollarti, a toccare qualche corda della tua emotività, allora te la ricorderai per sempre, e solo così sarai parte di ciò che avrai visto. Ed è proprio questo il compito di noi fotografi.

 

 

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